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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 27 gennaio 2025
Diritto della concorrenza – Europa / Aiuti di Stato e trasporto aereo – La Corte di Giustizia ha annullato la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato l’illegittimità della decisione della Commissione di non sollevare obiezioni sulle misure italiane di sostegno ad alcune compagnie aeree nel contesto della pandemia di COVID-19
Con la sentenza dello scorso 23 gennaio (la Sentenza), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha accolto il ricorso di Neos S.p.A. avverso la pronuncia del Tribunale dell’Unione Europea (il Tribunale) con la quale era stata annullata la decisione (la Decisione) della Commissione europea (la Commissione) in materia di aiuti di Stato che approvava le sovvenzioni conferite dalle autorità italiane ad alcune compagnie aeree per far fronte ai danni causati dell’emergenza COVID-19 (la Misura).
La Decisione, impugnata dalla ricorrente Ryanair DAC (Ryanair), era stata annullata dal Tribunale in quanto la Commissione non avrebbe adempiuto all’obbligo di motivazione imposto dall’articolo 296 TFUE, limitandosi ad analizzare solo il primo dei quattro motivi di ricorso avanzati da Ryanair. In primo luogo, secondo il Tribunale, la Decisione non presentava “in modo chiaro ed inequivocabile” il ragionamento che aveva condotto la Commissione ad affermare che il requisito imposto dalla Misura alle compagnie aeree per ottenere il beneficio (vale a dire l’obbligo di assicurare un trattamento retributivo minimo ai dipendenti) fosse contemporaneamente “indissolubilmente legato” e “non inerente” all’obiettivo della Misura. In secondo luogo, non risultava chiaro il motivo per cui la Commissione avesse esaminato la compatibilità della Misura con il diritto dell’Unione esclusivamente alla luce di alcune disposizioni (nel caso, del Regolamento Roma I, relativo alle norme applicabili alle obbligazioni contrattuali) tralasciando invece l’analisi di altre (nel caso, l’articolo 56 TFUE sulla libera prestazione dei servizi).
Con la Sentenza in commento, la CGUE ha ritenuto che la sentenza del Tribunale fosse viziata da due errori di diritto quanto alla valutazione dell’obbligo di motivazione, e ha rinviato la causa dinanzi al Tribunale affinché quest’ultimo statuisca sui restanti motivi di ricorso sollevati in prima istanza.
La CGUE ha osservato, innanzitutto, come sia indirizzo giurisprudenziale costante ritenere conforme all’obbligo di motivazione una decisione adottata ai sensi dell’articolo 108, comma 3 TFUE che sia succinta e faccia apparire in modo chiaro ed inequivocabile il ragionamento che ha condotto la Commissione a non sollevare obiezioni. Anche nel caso di specie, la Commissione non poteva infatti essere tenuta a fornire una motivazione più dettagliata in merito alla condizione di ammissibilità al beneficio relativa il trattamento retributivo minimo. Nello specifico, nessuna ulteriore motivazione era necessaria sull’apparente contrasto fra la “non inerenza” dell’obbligo all’obiettivo della Misura (poiché esso non mirava a risollevare le aziende dai danni della pandemia, ma a garantire maggior tutela ai dipendenti) e il suo essere al contempo “indissolubilmente legato” alla stessa.
La CGUE ha poi precisato che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, l’obbligo di motivazione non imponeva alla Commissione di giustificare l’assenza di una valutazione esplicita di compatibilità della Misura con altre disposizioni del diritto dell’Unione che non fossero le norme sugli aiuti di Stato.
Coerentemente con ciò, e al fine di preservare l’efficacia procedurale dell’articolo 108 TFUE e la possibilità di approvare degli aiuti di Stato senza dover avviare un procedimento d’indagine formale e laborioso, la CGUE ha ribadito un principio importante: non si può pretendere che la Commissione fornisca una motivazione sulla compatibilità della Misura rispetto a qualsiasi disposizione o principio che questa potrebbe potenzialmente violare.
Pur trattando di aiuti di Stato, la Sentenza si concentra prevalentemente sul requisito procedurale dell’obbligo di motivazione e fornisce un chiarimento interessante sulle aspettative relative a tale obbligo, bilanciando la necessità di salvaguardare l’osservanza del diritto dell’Unione, senza gravare eccessivamente sulla Commissione, con la possibilità per gli Stati membri di ottenere un’approvazione rapida.
Sarà interessante osservare come il Tribunale si pronuncerà ora sui motivi di ricorso non ancora esaminati, che riguardano il merito della Decisione.
Federica Antoniani
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Operazioni sottosoglia e settore alimentare – L’Autorità belga della concorrenza, a fronte della notizia di un’operazione sottosoglia, ha avviato un procedimento ai sensi dell’articolo 101 TFUE
Con il comunicato stampa dello scorso 22 gennaio 2025 l’Autorità belga della concorrenza (l’Autorità) ha comunicato di aver avviato un procedimento per verificare l’eventuale esistenza di una intesa restrittiva della concorrenza ai sensi dell’articolo 101 TFUE in relazione all’acquisizione da parte di Dossche Mills NV (Dossche Mills) del business di farine artigianali di Ceres NV (Ceres) (l’Acquisizione).
Ripercorrendo brevemente i fatti, già nel 2013 l’Autorità aveva concluso un procedimento ai sensi dell’articolo 101 TFUE nei confronti dei maggiori operatori attivi nel mercato della produzione e distribuzione di farine in Belgio, sanzionando le imprese partecipanti per alcune condotte restrittive della concorrenza, comprendenti accordi orizzontali e scambi di informazioni sensibili fra esse. In seguito, alcune delle imprese partecipanti all’intesa sono state progressivamente acquisite da Dossche Mills. Nel 2019, una proposta di acquisizione da parte di Dossche Mills era intervenuta anche nei confronti di Ceres ed era stata notificata all’Autorità ai sensi della normativa di merger control, applicabile a quell’operazione. Tuttavia, l’operazione – che, al contrario di quella attuale, comprendeva l’acquisto anche del segmento di produzione industriale, oltre a quello artigianale – era stata abbandonata, dopo che l’Autorità aveva sollevato preoccupazioni su possibili restrizioni della concorrenza derivanti dalla concentrazione. Infatti, Dossche Mills e Ceres erano e restano attualmente due dei più grandi produttori e distributori di farine artigianali in Belgio.
Alla luce di ciò, anche con riguardo all’Acquisizione oggi contemplata, l’Autorità ritiene che essa possa significativamente ridurre la concorrenza nel mercato in cui le due imprese operano.
Così, anche se l’Acquisizione non raggiunge le soglie di fatturato previste dalla legge belga per determinare un obbligo di notifica di merger control in Belgio, l’Autorità ha deciso di avviare un procedimento ex officio per la possibile violazione dell’articolo 101 TFUE. Ciò, in applicazione della recente giurisprudenza della Corte di Giustizia della UE (CGUE) (caso Towercast v. Autorité de la concurrence and Ministère de l’Économie, già oggetto di commento in questa Newsletter). Secondo il comunicato stampa, l’avvio di un procedimento ai sensi dell’articolo 101 TFUE è dettato dall’assenza nell’ordinamento belga del potere per l’Autorità di richiedere ex officio che una concentrazione sottosoglia venga preventivamente notificata e autorizzata (c.d. poteri di call-in).
Giova inoltre ricordare che l’Autorità ha già, in precedenza, fatto applicazione della giurisprudenza Towercast nell’avvio di un procedimento ai sensi dell’articolo 102 TFUE nei confronti di Proxiumus, in relazione all’acquisizione del concorrente EDPnet, poi ceduto (si veda, in proposito, questa Newsletter del 13 novembre 2023). Peraltro, non si tratta neppure della prima applicazione “estensiva” (ovvero di utilizzo dell’articolo 101 TFUE) della giurisprudenza Towercast: a tale giurisprudenza si era infatti richiamata anche l’Autorità francese della concorrenza nel procedimento condotto con riguardo a una serie di concentrazioni intervenute fra operatori attivi in Francia nel settore della lavorazione della carne (si veda questa Newsletter del 20 maggio 2024).
La decisione di avvio del procedimento ha molteplici profili di rilevanza. In primo luogo, è evidente come l’applicazione “estensiva” della giurisprudenza Towercast conferisca alle autorità nazionali della concorrenza dei poteri molto pervasivi nella revisione (anche ex post) delle concentrazioni sottosoglia (ad es., anche in assenza di una posizione dominante del soggetto acquirente, requisito invece nel caso di “utilizzo” dell’articolo 102). In secondo luogo, è evidente come l’Autorità abbia voluto, tramite l’avvio del procedimento, sottolineare l’esigenza di introdurre nell’ordinamento nazionale poteri c.d. di call-in (si noti anche che, in proposito, l’Autorità ha recentemente avviato una consultazione pubblica).
In conclusione, la decisione in commento conferma la crescente, affermata necessità per le autorità nazionali di munirsi dei poteri necessari per la revisione delle concentrazioni sottosoglia, anche a seguito della sentenza con cui la CGUE ha sancito l’impossibilità per la Commissione Europea di accettare il rinvio di una concentrazione, ai sensi dell’articolo 22 del Regolamento (CE) 139/2004, da parte di un’autorità nazionale che non sia originariamente competente ad esaminarla.
Sarà estremamente interessante seguire lo sviluppo del procedimento, il quale potrebbe non solo essere il primo ed essere concluso in applicazione specifica della giurisprudenza Towercast, ma anche aprire un vero e proprio “vaso di Pandora”, laddove fosse confermata l’utilizzabilità dell’articolo 101 TFUE per perseguire anche operazioni di concentrazione sottosoglia. Ciò, infatti, non essendo come detto richiesto il prerequisito della dominanza, renderebbe qualsiasi operazione di concentrazione di fatto soggetta ai poteri istruttori delle autorità antitrust, anche se posta in essere da soggetti senza significativo potere di mercato.
Irene Indino
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore digitale – Il Consiglio di Stato annulla parzialmente la sanzione irrogata dall’AGCM a Google per pratiche commerciali scorrette nella raccolta e nel trattamento dei dati personali dei propri utenti
Con la sentenza pubblicata lo scorso 7 gennaio, il Consiglio di Stato (il CdS) ha parzialmente annullato il provvedimento n. 29680 del 2021 (la Decisione) con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM) aveva sanzionato Google Ireland Limited (Google) per 10 milioni di euro, per aver posto in essere due pratiche commerciali scorrette nelle attività di acquisizione e trattamento dei dati dei propri utenti a fini pubblicitari (i Dati).
La Decisione aveva ad oggetto due pratiche, consistenti rispettivamente: (i) nell’adozione di un’informativa sulle modalità di trattamento dei Dati per un loro utilizzo a fini commerciali (l’Informativa) priva dei requisiti di immediatezza, chiarezza e completezza, in fase di creazione dell’account Google (la Pratica A, qualificata come ingannevole); e (ii) nell’adozione di un sistema che imponeva il c.d. “opt-out” ai fini dell’ottenimento del consenso al trattamento dei Dati, ossia il consenso degli utenti al trattamento veniva preselezionato, fatto sempre salvo il diritto degli utenti a ritirarlo (il c.d. opt-out per l’appunto) (la Pratica B, qualificata come aggressiva). Alla luce di tali pratiche, l’AGCM irrogava a Google due sanzioni, entrambe pari al massimo edittale all’epoca previsto (5 milioni di euro), per un totale di 10 milioni di euro.
Promosso inutilmente ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – che aveva integralmente confermato la Decisione – Google ha fatto appello dinanzi al CdS, che, con la sentenza oggetto del presente commento, lo ha parzialmente accolto.
Con un primo motivo, Google ha lamentato l’incompetenza dell’AGCM all’adozione della Decisione. Secondo Google, infatti, poiché la normativa sulla privacy costituisce una normativa di carattere generale, applicabile trasversalmente a tutti i settori, essa ha l’effetto di tutelare la libertà di determinazione degli individui rispetto all’utilizzo dei dati personali non solo in quanto espressione di un diritto fondamentale della persona, ma anche in quanto espressione della propria libertà economica in qualità di consumatore. Sicché, nel caso di condotte astrattamente riferibili sia alla normativa sulla privacy, sia a quella sulle pratiche commerciali scorrette, andrebbe accordata prevalenza alla prima, e il sindacato sulla loro legittimità devoluto all’autorità di settore – in Italia, il Garante per la protezione dei dati personali (il Garante della Privacy) – e sottratto all’AGCM.
Di diverso avviso si è, tuttavia, mostrato il CdS, secondo il quale la normativa sulla privacy è posta a tutela dei diritti della personalità, e non a tutela della libertà del consumatore. E poiché l’oggetto dell’accertamento dell’AGCM non attiene alla correttezza del trattamento dei dati personali – area di intervento del Garante della Privacy – bensì alle modalità di informazione sullo sfruttamento dei dati a fini commerciali nell’ambito di un rapporto di consumo, nessuna censura di incompetenza può essere mossa all’AGCM.
Con un secondo ordine di motivi, Google ha lamentato l’errata ricostruzione della Pratica A, giacché l’Informativa non sarebbe stata caratterizzata né da una consultazione meramente eventuale da parte dell’utente né da opacità informativa, e in ogni caso, essa non sarebbe stata idonea a indurre in errore il consumatore medio, che è ben conscio del fatto che la propria navigazione su internet genera dati usati a fini commerciali dagli operatori digitali. Anche tale gruppo di motivi è stato respinto dal CdS, che ha ritenuto plausibili le valutazioni dell’AGCM.
Con un terzo gruppo di motivi, infine, Google ha lamentato l’errata qualificazione della Pratica B come “aggressiva”, nonché la distinzione operata dall’AGCM tra la Pratica A e la Pratica B, le quali, ad avviso di Google, avrebbero dovuto essere considerate come parti di un’unica condotta.
Tali censure hanno invece trovato accoglimento da parte del CdS, che ha dunque annullato in parte qua la Decisione. Secondo il CdS, infatti, al fine di qualificare una pratica come “aggressiva”, è necessaria una condotta capace di coartare la libertà di scelta dell’utente. E poiché nel caso di specie ai consumatori era sempre fatto salvo il diritto di ritirare il consenso al trattamento dei Dati, la Pratica B, pur presentando i tratti di una pratica ingannevole, non poteva essere qualificata come aggressiva. Ad ogni modo, conclude il CdS, costituisce un’artificiosa distinzione quella operata dall’AGCM tra Pratica A e Pratica B, poiché entrambe dirette al conseguimento del medesimo obiettivo – l’ottenimento del consenso al trattamento dei Dati a fini commerciali. Il CdS ha quindi annullato parzialmente la sentenza di primo grado e, conseguentemente, la Decisione dell’AGCM.
La sentenza oggetto del presente commento risulta particolarmente interessante, sotto diversi profili: da un lato, essa fornisce chiare indicazioni sistematiche per meglio definire quali sono gli ambiti di competenza del Garante della Privacy – rispetto a quelli invece riservati all’AGCM; dall’altro, significativi sono gli spunti di riflessione circa la qualificazione di condotte sostanzialmente unitarie che abbiano ad oggetto, nel complesso, la raccolta e il trattamento dei dati personali degli utenti dei servizi digitali. Infine, la sentenza appare proporre una configurazione della fattispecie di pratica aggressiva delimitata in modo più rigoroso rispetto a diversi precedenti dell’AGCM.
Ignazio Pinzuti Ansolini
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Appalti, concessioni e regolazione / Appalti e contenuto dell’offerta tecnica – la Corte di Giustizia spiega quali sono i requisiti affinché l’amministrazione possa richiedere nel bando un materiale specifico
Con la sentenza del 16 gennaio 2025, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha chiarito che, in un’ottica di tutela della concorrenza, l’amministrazione può specificare nel bando la tipologia del materiale con cui un’opera deve essere realizzata solo se tale materiale è strettamente necessario all’oggetto del contratto, salvi i casi in cui venga garantita la possibilità di presentare offerta equivalente.
La vicenda riguarda una gara indetta dalla società Fluvius System Operator CV (Fluvius) che è il soggetto che si occupa della costruzione e della gestione dell’infrastruttura idrica in Belgio e in particolare della rete delle acque nere. La gara riguardava l’installazione e sostituzione di alcuni scarichi e il bando richiedeva specificamente che le tubature fossero realizzate in gres o in cemento.
DYKA Plastic NV (DYKA), un operatore attivo sul mercato delle tubature che tuttavia produce manufatti in plastica, ha contestato la scelta di Fluvius di far ricorso unicamente a questi due materiali. Ad avviso di DYKA, tale scelta violerebbe l’articolo 42 della Direttiva 2014/24/UE in tema di appalti pubblici (la Direttiva) perché essa incide negativamente sulla concorrenza nell’aggiudicazione dei contratti pubblici con Fluvius.
Fra Fluvius e DYKA è sorto pertanto un contenzioso che, attraverso un rinvio pregiudiziale operato dal giudice belga, ha raggiunto la CGUE.
Con tale rinvio, il giudice belga ha domandato, fra le altre cose, se l’amministrazione possa inserire nelle specifiche tecniche del bando di gara dei requisiti relativi ai materiali che devono essere utilizzati per realizzare l’opera richiesta.
La CGUE ha innanzitutto ricordato come, nella determinazione delle specifiche tecniche di un bando, l’amministrazione goda di una certa discrezionalità. Infatti, essa è nella miglior posizione per determinare quali caratteristiche l’opera richiesta debba avere. Tuttavia, l’amministrazione deve seguire uno dei due criteri previsti dall’articolo 42, comma 3 della Direttiva, o un misto di entrambi. Da un lato, essa può utilizzare un criterio funzionalistico, redigendo un bando che lasci agli operatori la libertà di determinare le modalità più idonee a raggiungere il risultato. Dall’altro, l’amministrazione può far riferimento a determinati standard approvati a livello internazionale, europeo o nazionale, purché lasci agli operatori la possibilità di adottare anche standard equivalenti.
Ciò che l’amministrazione di regola non può fare è richiamarsi a specifiche caratteristiche del prodotto, quali un determinato processo produttivo o fattura, o a brevetti e marchi. La ragione è duplice: da un lato, il divieto mira a tutelare la concorrenza, evitando che un criterio apparentemente neutro vada di fatto a selezionare un singolo operatore; dall’altro, la norma mira a favorire l’innovazione negli appalti pubblici. Anche in questo caso, il divieto non si applica se si realizzano alcune condizioni, fra cui spicca l’inserimento nel bando di una clausola di equivalenza.
La CGUE ha però rilevato che esiste un’eccezione al divieto, vale a dire il caso in cui la caratteristica specifica è giustificata dall’oggetto del contratto. Questa eccezione deve essere interpretata in maniera restrittiva. La CGUE ha pertanto fornito chiarimenti sulla sua portata in concreto, spiegando che, in linea di massima, essa va a coprire i casi in cui la caratteristica specifica (quale può essere appunto il materiale) è strettamente necessaria a realizzare il risultato voluto dall’amministrazione. Altri casi, tuttavia, possono essere il desiderio di ottenere uno specifico effetto estetico dell’opera, o la piena integrazione dell’opera all’interno del contesto ambientale in cui viene inserita.
Fatte queste precisazioni, la CGUE ha rimesso la causa al giudice del rinvio, che dovrà stabilire nel caso concreto se la richiesta di Fluvius circa l’utilizzo di specifici materiali fosse giustificata dall’oggetto del contratto.
La sentenza è interessante perché pone degli interrogativi sull’estensione della discrezionalità amministrativa. Se infatti è vero che un’amministrazione aggiudicatrice deve esercitare questa discrezionalità nell’ambito di criteri che orientano la scelta in funzione del risultato voluto, è anche vero che l’amministrazione aggiudicante è lo stesso soggetto che, a monte, ha determinato il risultato da ottenere in sede di redazione del bando. Per cui, l’unico vero limite sembra essere quello legato al divieto di scegliere criteri che, per la loro natura, vanno manifestamente a favorire alcuni concorrenti.
Massimiliano Gelmi
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Incentivi e settore energetico – Il TAR Lazio annulla un provvedimento del GSE adottato in autotutela a seguito di una seconda ispezione
Con la sentenza del 18 dicembre 2024 il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (TAR) ha annullato un provvedimento del Gestore Servizi Energetici S.p.A. (GSE). Quest’ultimo, a distanza di otto anni da una propria valutazione e decisione e a seguito di una seconda ispezione, aveva ridotto un incentivo già assegnato a un’impresa richiedente – Sardegna Agrienergia Uno S.r.l. (l’Impresa) – nel contesto del c.d. “Secondo Conto Energia”, il quale prevedeva un regime per la promozione dello sviluppo del settore fotovoltaico.
La vicenda ha origine nel 2010, quando l’Impresa aveva realizzato in Sardegna un impianto fotovoltaico di potenza poco inferiore ai 700 kW. Il GSE, dopo aver ispezionato l’impianto e redatto l’apposito rapporto finale, aveva ammesso l’Impresa a godere dei benefici relativi agli impianti fotovoltaici “pienamente integrati”. Dopo otto anni e a valle di un’ulteriore ispezione, sulla base dei medesimi fatti già accertati nel 2010, il GSE – con un secondo provvedimento – aveva riqualificato l’impianto come solo “parzialmente integrato” e ammesso l’Impresa a godere di incentivi minori rispetto a quelli, nel frattempo, da essa già percepiti, intimando anche la restituzione delle somme indebitamente ricevute.
Il TAR, investito dell’impugnazione del provvedimento da parte dell’Impresa, ha accolto i motivi di ricorso di quest’ultima. Essa lamentava la violazione delle norme a presidio dell’esercizio dei poteri di annullamento di un atto amministrativo in autotutela, nonché la lesione del proprio legittimo affidamento verso il GSE.
In sintesi, i giudici amministrativi hanno ritenuto determinante la non emersione di alcuna circostanza nuova durante la seconda ispezione del GSE, che si sarebbe limitato a un nuovo esercizio del proprio potere in relazione a un’identica situazione di fatto. Il TAR ha al riguardo sottolineato la rilevanza delle violazioni dei presupposti necessari per poter operare in autotutela. Il GSE avrebbe infatti: (i) mancato di operare un bilanciamento fra l’interesse pubblico e quello privato; (ii) mancato di tenere in considerazione l’affidamento ingenerato nell’impresa con la decisione del 2010; (iii) esercitato l’autotutela oltre il limite dei 18 mesi prescritto dalla l. 124/2015, e (iv) nella sostanza, annullato (e non solo emendato) il proprio provvedimento originale (di concessione dei benefici), senza preoccupazione alcuna rispetto ai più stringenti criteri da rispettare in questi casi.
Contrariamente a quanto avvenuto in questo caso, non è infrequente che il giudice amministrativo confermi un secondo provvedimento del GSE in modifica del primo, in virtù del potere di vigilanza di quest’ultimo sul rispetto dei requisiti lungo tutto il periodo durante il quale un beneficiario percepisce degli incentivi. Non resta che attendere un possibile appello, per conoscere eventuali riflessioni del Consiglio di Stato sulla questione.
Riccardo Ciani
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