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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 2 dicembre 2024

Diritto della concorrenza – Europa / Intese e settore bancario – Il Tribunale dell’Unione Europea ha respinto l’appello di HSBC contro una sanzione di 31,7 milioni di euro nel contesto di un’intesa restrittiva della concorrenza, con una pronuncia sui limiti degli eventi interruttivi della prescrizione

Il 27 novembre il Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) si è pronunciato sull’appello proposto da tre società del gruppo bancario HSBC (HSBC). Con il suo ricorso, HSBC chiedeva l’annullamento della decisione con cui la Commissione europea (la Commissione), nel 2021, aveva rimodulato la sanzione precedentemente comminata a HSBC nel caso del cartello sugli Euro Interest Rate Derivatives (EIRD).

Ripercorrendo brevemente l’articolata vicenda processuale che ha portato alla decisione in commento, nel 2016 la Commissione aveva sanzionato molteplici istituti bancari – tra cui HSBC – per aver partecipato a un cartello avente ad oggetto la manipolazione dei tassi interbancari “euribor” attraverso lo scambio di informazioni sensibili. Nel settembre del 2019, su ricorso di HSBC, il Tribunale aveva annullato parzialmente tale decisione relativamente al calcolo della sanzione inflitta a HSBC e la Commissione aveva successivamente appellato. Tuttavia, nelle more dell’impugnazione, la Commissione aveva manifestato informalmente a HSBC l’intenzione di rinunciare all’appello previa adozione di una nuova decisione, effettivamente poi adottata nel 2021 (la Decisione), rideterminando in capo a HSBC una nuova sanzione in linea con i criteri stabiliti dal Tribunale con la sentenza del 2019.

HSBC aveva da ultimo presentato nuovamente ricorso chiedendo l’annullamento della Decisione o, in alternativa, la riduzione della sanzione inflittagli.

Nello specifico, con il primo motivo di ricorso HSBC richiede l’annullamento della Decisione in quanto adottata oltre il termine di prescrizione decennale previsto all’art. 25 del Regolamento n. 1/2003. In particolare, secondo HSBC, tale termine non sarebbe stato sospeso nel 2019 dall’appello della sentenza dinnanzi alla Corte di Giustizia. Infatti, per HSBC il regime sospensivo dei termini (ai sensi dei quali la Commissione perde il potere di accertare infrazioni se non vi ha proceduto adottando una decisione ad hoc entro 10 anni dalla cessazione della condotta rilevante salvo in caso di, appunto, sospensione quale quella a seguito di impugnazione) non si applicherebbe al caso di specie poiché la Commissione avrebbe proposto ricorso non tanto sulla scorta di un effettivo interesse all’azione, ma per il solo fine (strumentale) di interrompere la decorrenza del termine decennale. Alternativamente, secondo la ricorrente il termine di prescrizione sarebbe comunque ripreso a decorrere nel momento in cui il Commissario alla concorrenza aveva comunicato a HSBC l’intenzione della Commissione di rinunciare all’appello e adottare una nuova decisione, in quanto prova della sopravvenuta carenza d’interesse di quest’ultima a coltivare l’azione.

Rispetto al primo motivo di impugnazione, il Tribunale ha respinto le censure di HSBC chiarendo che (i) una carenza di interesse sopravvenuta e non originaria non agisce retroattivamente rendendo l’appello inammissibile ed inoltre, (ii) anche ipotizzando una sopravvenuta carenza di interesse della Commissione, essa coinciderebbe con l’adozione della sua nuova decisione del 2021. In particolare, secondo il Tribunale, la precedente dichiarazione del Commissario della concorrenza di voler rinunciare all’appello non rileverebbe in senso contrario. Nella sentenza si chiarisce, infatti, che solo una decisione formale adottata dal Collegio dei commissari rappresenta l’effettiva posizione della Commissione, nonché l’eventuale venire meno del suo interesse a coltivare l’appello.

Con gli ulteriori motivi di ricorso, HSBC contestava la quantificazione della sanzione operata dalla Commissione. Nello specifico, secondo HSBC, la Commissione avrebbe: (i) commesso degli errori di valutazione nelle modalità di calcolo della base dell’ammenda; (ii) erroneamente qualificato l’eccessiva gravità della condotta; e (iii) comminato una sanzione sporzionata.

Rispetto al primo punto, i giudici sono entrati nel merito dei ragionamenti e dei calcoli a cui è conseguita la sanzione impugnata e i relativi fattori di riduzione. In particolare, i giudici hanno confermato l’opportunità di mantenere come base di calcolo dell’ammenda le cash receipts derivanti dai flussi monetari frutto delle operazioni effettuate da HSBC nel mercato degli EIRD. Il Tribunale altresì ha respinto le censure di HSBC relative al calcolo dei fattori di riduzione della base, precisando anche che se si fossero dovuti applicare i metodi di calcolo proposti da HSBC, la sanzione non sarebbe stata sufficientemente deterrente.

Con riferimento al secondo punto, il Tribunale ha rigettato le argomentazioni di HSBC in merito all’eccessiva gravità assegnata alla violazione, sottolineando (i) l’irrilevanza di eventuali effetti positivi della stessa sul mercato, essendo la violazione idonea a minare la fiducia nel mercato bancario europeo; e (ii) che, rispetto alle finalità di deterrenza, non devono essere valutati fattori quali il coinvolgimento della singola impresa o la durata specifica dell’infrazione, essendo gli stessi già considerati separatamente. Infine, in tal senso, il Tribunale ha altresì respinto l’ultima censura di HSBC, confermando come la riduzione del 15% – incrementata rispetto all’originale riduzione del solo 10%, e riconosciuta a HSBC a titolo di minor partecipazione della stessa all’intesa nonché per via della sua limitata conoscenza dell’estensione del coinvolgimento degli altri istituti bancari – rispecchiasse sufficientemente il minor coinvolgimento di quest’ultima nel cartello.

Questa sentenza risulta d’interesse in quanto fornisce ulteriori chiarimenti circa la portata degli effetti sospensivi di un eventuale ricorso dinnanzi ai giudici di Lussemburgo rispetto al decorrere del termine di prescrizione decennale. Inoltre, sarà di particolare interesse osservare se le argomentazioni del Tribunale in tema di criteri di calcolo della sanzione verranno avallate anche dalla Corte di Giustizia nel caso di un eventuale appello.

Riccardo Ciani

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Intese e settore dell’abbigliamento – La Commissione sanziona per un totale di 5,7 milioni di euro Pierre Cardin e il licenziatario Ahlers per aver limitato le vendite transfrontaliere di abbigliamento

In data 28 novembre 2024, la Commissione europea (la Commissione) ha sanzionato la casa di moda francese Pierre Cardin e il suo principale licenziatario nello Spazio Economico Europeo (SEE), il gruppo tedesco Ahlers, per la violazione dell’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) per un totale di 5,7 milioni di euro (rispettivamente circa 2,2 milioni di euro per Pierre Cardin e 3,5 milioni euro per Ahlers). La sanzione in questione è stata imposta per aver limitato le vendite transfrontaliere di abbigliamento a marchio Pierre Cardin, nonché le vendite di tali prodotti a clienti specifici.

Più nello specifico, il 22 giugno 2021 la Commissione ha effettuato dawn raid presso i locali di Ahlers in Germania riguardo a un possibile comportamento anticoncorrenziale da parte di Pierre Cardin e del suo licenziatario, Ahlers.

L’indagine della Commissione ha accertato che, per oltre un decennio, tra il 2008 e il 2021, Pierre Cardin e Ahlers hanno concluso accordi e messo in atto pratiche concordate restrittive con l’obiettivo di impedire ad altri licenziatari di Pierre Cardin e ai loro clienti di vendere capi firmati Pierre Cardin, sia offline, sia online nello SEE. In particolare, la Commissione ha riscontrato che tali accordi impedivano le vendite transfrontaliere e bloccavano la vendita a determinate categorie di clienti, in particolare rivenditori a basso costo, come i discount. L’obiettivo finale di tale coordinamento tra Pierre Cardin e Ahlers era garantire ad Ahlers una protezione territoriale assoluta nei paesi coperti dai suoi accordi di licenza con Pierre Cardin nello SEE.

La Commissione ha rilevato che queste pratiche illegali impedivano ai dettaglianti di acquistare liberamente prodotti negli Stati membri con prezzi più bassi e di scambiarli nei mercati con prezzi più alti, frammentando illegalmente il mercato interno. Inoltre, le restrizioni al commercio parallelo potevano isolare un mercato nazionale, consentendo al produttore o al fornitore di praticare prezzi più alti a scapito dei consumatori. Tali tipologie di restrizioni al commercio parallelo all’interno dello SEE costituiscono ostacoli al buon funzionamento del mercato unico e, come noto, rientrano tra le più gravi – e già più volte sanzionate – restrizioni della concorrenza.

Iva Pudar

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Diritto della concorrenza – Italia / Abusi di posizione contrattuale e misurazione dei consumi energetici – Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello di Hera S.p.A. contro una sanzione irrogata dall’AGCM per violazione dell’articolo 9, comma 3-bis della Legge 192/1998, chiarendo la natura ibrida di tale disposizione che si pone a cavallo tra il public ed il private enforcement

Con la sentenza del 27 novembre scorso (la Sentenza), il Consiglio di Stato (CdS) ha respinto il ricorso in appello presentato da Hera S.p.a. (Hera) avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR Lazio), con cui era stato confermato il provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) che aveva sanzionato Hera per un abuso di dipendenza economica; la condotta, in particolare, si era concretizzata nell’aver inserito in alcuni contratti commerciali con i fornitori dei misuratori per il gas di seconda generazione alcuni termini di pagamento eccessivamente lunghi, rappresentando una violazione dell’articolo 9 comma 3-bis della L. 192/1998 (che prevede la possibilità in capo all’AGCM di procedere alle diffide e sanzionare le imprese che abbiano commesso detto abuso) nonché della disciplina di cui al d.lgs. 231/2002, richiamata all’interno dell’articolo 9, relativa ai ritardi di pagamento, diffusi e reiterati, nelle transazioni commerciali.

L’origine della vicenda si può rintracciar nel 2016, quando l’AGCM aveva irrogato una sanzione pari a € 800.000,00 nei confronti di Hera per violazione della disciplina sull’abuso di dipendenza economica. In particolare, secondo la ricostruzione dell’AGCM, Hera avrebbe inserito, a partire dal 2013, all’interno della documentazione relativa a procedure di gara per la fornitura di “smart meter” (misuratori per il gas), termini di pagamento eccessivamente lunghi (pari a 120 giorni) nei confronti dei fornitori. Hera aveva impugnato la decisione dell’AGCM, contestando, tra le altre cose, la tardività dell’avvio del procedimento istruttorio da parte dell’AGCM ed un’interpretazione illogica dell’istituto dell’abuso di dipendenza economica.

Il TAR Lazio, tuttavia, rigettava integralmente il ricorso di Hera, la quale dunque proponeva appello dinnanzi al CdS. In particolare, Hera sosteneva che la normativa da applicarsi, relativa al termine per notificare l’avvio dell’attività di accertamento volta ad individuare l’esistenza di eventuali violazioni, sarebbe stata quella contenuta nell’articolo 14 della L. 689/1981, la quale prevede un termine massimo di 90 giorni per effettuare tale contestazione. Hera, altresì, riteneva che, successivamente alla presunzione di abusività, si dovesse svolgere un accertamento in concreto dei fatti lesivi. Secondo l’interpretazione fornita dal TAR Lazio, invece, si sarebbe potuto configurare un abuso che fosse “potenzialmente dannoso”, a prescindere dall’accertamento dei suoi effetti.

Rispetto al motivo inerente alla tardività dell’avvio formale del procedimento istruttorio, il CdS ha confermato quanto stabilito dal TAR Lazio in relazione ai termini rilevanti in questa fattispecie. La normativa invocata da Hera (ossia l’articolo 14 della L. 698/1981), secondo il CdS, essendo un procedimento di competenza dell’AGCM, non poteva trovare applicazione al caso di specie. In ogni caso, anche se fosse stata ritenuta applicabile, il dies a quo sarebbe dovuto comunque decorrere dal momento in cui l’AGCM avesse avuto piena contezza del potenziale illecito. Il CdS ha sottolineato come il materiale fornito dall’originaria segnalazione non potesse invero essere ritenuto sufficiente per valutare gli elementi essenziali del potenziale fatto illecito, al contrario giustificando una fase preistruttoria estesa proprio perché particolarmente complessa.

Rispetto al motivo inerente all’illogicità dell’interpretazione dell’istituto dell’abuso di dipendenza economica, il CdS ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’applicazione dell’articolo 9 comma 3-bis della L. 192/1998, il quale richiama il d.lgs 231/2002. Secondo il CdS le due norme richiamate sono espressione di public enforcement, incrementando il sistema di tutela civilistica nelle ipotesi in cui la violazione superi determinati perimetri attinenti ai singoli rapporti contrattuali. Un apparato rimediale di questo tipo, caratterizzato da una particolare incisività, legittima l’intervento dell’AGCM che, ordinariamente, non avrebbe invece voce sul tema dei termini di pagamento. Al sistema ordinario di private enforcement è stato quindi affiancato l’intervento dell’AGCM, escludendo però che accertamenti di questo tipo possano rientrare tra le verifiche “primarie” di sua competenza. Una struttura normativa del genere rende irrilevante l’esistenza o meno della situazione di dipendenza economica, escludendone la presunzione semplice, definendo l’abuso come un abuso di fatto, e non di diritto.
La sentenza del CdS in rilievo aggiunge ulteriori tasselli interpretativi ad un istituto, quello della dipendenza economica, che se sembra giocare un ruolo sempre più importante nella politica di concorrenza dell’AGCM, presenta ancora numerosi aspetti non chiari nella sua applicazione concreta.

Giacomo Perrotta

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Tutela dei consumatori / Pratiche commerciali scorrette e settore delle piattaforme digitali – L’AGCM pubblica l’avviso della contestazione degli addebiti ad un’impresa “irreperibile” per presunte pratiche commerciali scorrette

Nel bollettino n. 45 dello scorso 25 novembre, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha pubblicato l’avviso avente ad oggetto l’avvio del procedimento (l’Avviso) nel quale sono contenute le contestazioni mosse alla società DLM Global Independent Business (DLM) nell’ambito del procedimento PS12798 (il Procedimento). La pubblicazione è avvenuta ai sensi dell’art. 20, comma 2, del nuovo Regolamento sulle procedure istruttorie nelle materie di tutela del consumatore e pubblicità ingannevole e comparativa (già oggetto di commento nella presente Newsletter) (Regolamento).

In base all’art. 20, comma 2, infatti, qualora le comunicazioni di avvio del procedimento alle imprese sottoposte ad istruttoria da parte dell’AGCM non risultino positivamente notificate – come avvenuto nel caso di specie, dove l’AGCM non aveva ricevuto evidenza della effettiva notifica a DLM dell’avvio del Procedimento – esse devono essere effettuate tramite un avviso nel bollettino pubblicato sul sito dell’AGCM. Con l’Avviso, in particolare: (i) vengono precisate le preoccupazioni nutrite dall’AGCM sulle condotte di DLM (sulle quali, si veda infra); (ii) viene comunicata a DLM la data di conclusione della fase istruttoria e quella di conclusione del Procedimento, secondo i nuovi termini (previsti dall’art. 8 del Regolamento); e, infine, (iii) si rende edotta DLM della possibilità di presentare controdeduzioni entro 20 giorni.

Nel merito, il Procedimento ha ad oggetto il servizio fornito da DLM sul proprio sito web di vendita di “pacchetti” di c.d. followers, di recensioni, account e apprezzamenti. Secondo la ricostruzione dell’AGCM, tale servizio sarebbe suscettibile di integrare una pratica commerciale scorretta, in violazione degli artt. 20 e 23, lettera bb-quater, del Codice del Consumo, dal momento che (i) l’erogazione del pacchetto acquistato avverrebbe in tempistiche particolarmente brevi, (ii) verrebbero garantite agli acquirenti solo recensioni positive e che (iii) sarebbero previste istruzioni per aggirare le regole predisposte dalle varie piattaforme in merito alla pubblicazione delle recensioni.

Tutti elementi, secondo l’AGCM, che farebbero presupporre che le recensioni e gli apprezzamenti veicolati dalla stessa DLM non siano frutto di una effettiva esperienza di consumo, bensì artificiosamente creati. Tali recensioni e apprezzamenti creerebbero, a parere dell’AGCM, un’apparenza ingannevole di affidabilità, e sfrutterebbero impropriamente le funzionalità delle piattaforme social dedicate agli account di maggiore successo. A corroborare la propria tesi, l’AGCM richiama anche due direttive europee: la Direttiva 2005/29, che chiarisce che nella nozione di “apprezzamenti” vanno ricomprese le pratiche relative a followers, reazioni e visualizzazioni; e la Direttiva 2019/2161 in merito al divieto di pubblicare recensioni false o manipolate.

L’ Avviso in commento risulta di particolare rilievo in quanto è la prima applicazione del nuovo Regolamento, richiamando espressamente i nuovi termini del procedimento e la pubblicazione della comunicazione di avvio del procedimento.

Maria Teresa Loiudice

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Appalti, concessioni e regolazione / Concorrenza e autorizzazioni amministrative – La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il requisito della residenza per l’acquisizione della licenza per il servizio di trasporto pubblico locale non di linea. La Corte Costituzionale ha particolarmente valorizzato l’incompatibilità di tale disciplina con il principio della concorrenza

Con la sentenza del 21 novembre 2024, la Corte Costituzionale (la Corte) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma legislativa della Regione Umbria in materia di NCC. La norma annullata è l’articolo 6, comma 1, lettera i) della Legge della Regione Umbria 14 giugno 1994, n.17 che imponeva la residenza nella Regione quale requisito per l’iscrizione nel ruolo regionale dei conducenti di veicoli adibiti a servizi pubblici non di linea. Secondo la Corte, questa requisito rappresentava una restrizione all’esercizio dell’attività di noleggio con conducente (NCC) sul territorio regionale in violazione dei principi in materia di concorrenza che l’art. 117 della Costituzione riserva allo Stato, nonché in violazione dei principi di uguaglianza e non discriminazione tutelati dall’art. 3 della Costituzione.

Nel caso di specie, un operatore aveva presentato domanda di iscrizione nel ruolo regionale dei conducenti NCC, ma l’amministrazione aveva respinto la richiesta per mancanza del requisito di residenza nella Regione. L’operatore ha impugnato il provvedimento di fronte al TAR Umbria che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale sulla norma regionale che imponeva l’obbligo di residenza nel territorio della Regione.

La Corte riprende e conferma le argomentazioni del TAR Umbria e dichiara l’incostituzionalità della norma regionale in relazione a un duplice parametro.

In primo luogo, secondo la Corte, la norma viola l’art. 117 della Costituzione perché impone una restrizione che investe la tutela della concorrenza su cui le Regioni non hanno potestà legislativa. A tal proposito, la Corte spiega che la definizione dei soggetti abilitati a specifiche professioni è determinante alla configurazione del relativo settore economico. Si tratta, infatti, di una scelta che impone un limite alla libertà di iniziativa economica individuale e che incide sulla competizione tra gli operatori economici del settore. Pertanto, essa rientra pienamente nell’ampia nozione di concorrenza e costituisce un limite invalicabile alla potestà legislativa regionale. Del resto, nel caso di specie, il legislatore statale aveva emesso la legge quadro n. 21 del 1992 (la Legge Quadro) che, nel disciplinare l’attività degli NCC, aveva affidato alle Regioni la definizione dei criteri per l’ammissione al ruolo dei conducenti. Tuttavia, la stessa legge quadro ricollegava tali criteri esclusivamente a caratteri di affidabilità e professionalità, vista la necessità di “un’apertura del mercato, eliminando ogni barriera regolativa priva di adeguata giustificazione”. In altri termini, la Legge Quadro prevedeva i principi fondamentali della materia, ivi inclusi quelli a tutela della concorrenza, che rappresentavano un limite alla potestà legislativa delle Regioni.

In secondo luogo, la Corte conferma anche l’incostituzionalità della norma regionale in relazione alla violazione del principio di uguaglianza e non discriminazione di cui all’art. 3 della Costituzione. Infatti, secondo la Corte, l’imposizione di un obbligo di residenza nella Regione costituisce un mezzo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito, in quanto eccessivamente e inutilmente gravoso, mentre la medesima esigenza di tutelare ulteriori interessi pubblici potrebbe essere semmai soddisfatta con la previsione di requisiti alternativi quale l’elezione di domicilio, sulla falsariga del modello prescelto da altre legislazioni regionali.

La sentenza della Corte è interessante perché chiarisce che la tutela della concorrenza è un parametro costituzionale che pone un limite alla potestà normativa regionale sia nella configurazione antecedente alla riforma costituzionale del 2001 sia nella configurazione successiva alla riforma. Inoltre, la sentenza rappresenta un ennesimo capitolo volto a bloccare la proliferazione di norme regionali che creano restrizioni indebite all’esercizio delle attività relative al trasporto pubblico locale non di linea.

Chaima El Attaoui

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