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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 24 giugno 2024

Diritto della concorrenza – Europa / Gun-jumping e richieste di informazioni – Il Tribunale dell’UE ha sospeso in via cautelare due richieste di informazioni della Commissione europea indirizzate a Vivendi e Lagardère ed aventi ad oggetto la corrispondenza di alcuni dipendenti

Con le due ordinanze del 13 giugno 2024, il Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) ha accolto le istanze presentate da Vivendi S.E. (Vivendi) e Lagardère S.A. (Lagardère) volte ad ottenere la sospensione in via cautelare di due decisioni della Commissione europea (la Commissione) che prescrivevano alle società di raccogliere e trasmetterle i documenti contenuti nelle caselle di posta elettronica e nei cellulari personali di alcuni dipendenti.

Vivendi e Lagardère sono due gruppi francesi attivi, tra l’altro, nel settore dei media e dell’intrattenimento. Il 25 luglio 2023, dopo aver autorizzato in via condizionata l’acquisizione di Lagardère da parte di Vivendi, la Commissione aveva avviato un’indagine volta ad accertare se Vivendi, nel corso della procedura, avesse violato l’obbligo di c.d. “standstill” (già riportato in questa Newsletter). Nel contesto di questo procedimento, la Commissione aveva inviato alle società la menzionata richiesta di informazioni ai sensi dell’Art. 11, par. 3 del Regolamento 139/2004 (l’EUMR), avente ad oggetto l’obbligo imposto alle società di raccogliere i documenti scambiati da alcuni dipendenti, inclusa la corrispondenza contenuta nella posta elettronica personale e nei messaggi dei cellulari personali, a condizione che tali mezzi fossero stati utilizzati almeno una volta da questi dipendenti per comunicazioni professionali.

Entrambe le società avevano impugnato le rispettive decisioni, chiedendone l’annullamento e, contestualmente, la sospensione in via cautelare dell’efficacia esecutiva fino alla definizione del giudizio. Vivendi, nello specifico, aveva chiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione sostenendo che essa fosse lesiva del diritto al rispetto della vita privata dei dipendenti coinvolti, non essendo state disposte garanzie sufficienti per tutelare i loro dati personali. Lagardère, invece, aveva lamentato, tra le altre cose, l’impossibilità giuridica e materiale di raccogliere i documenti contenuti nei dispositivi personali dei suoi dipendenti, non disponendo, da un lato, dei poteri propri di un’autorità pubblica per poter procedere coercitivamente alla raccolta dei documenti richiesti (rischiando, invece, di esporsi al rischio di denunce e sanzioni penali) e, dall’altro, non avendo la disponibilità materiale né l’accesso ad alcuni dispositivi o caselle di posta elettronica personali.

Il Tribunale aveva inizialmente rigettato l’istanza di sospensione cautelare presentata dalle società ricorrenti, sul presupposto che non fosse integrato il requisito del c.d. periculum in mora, ossia il rischio che il ricorrente, nelle more del giudizio, patisca un danno grave ed irreparabile. In sede di impugnazione, tuttavia, la Corte di Giustizia dell’Unione europea aveva annullato la decisione del Tribunale, riconoscendo la sussistenza del periculum in mora in entrambi i casi e rimettendo al Tribunale la valutazione relativa al secondo requisito, ossia il fumus boni iuris.

In questa sede, il Tribunale, richiamandosi alla giurisprudenza precedente, ha innanzitutto ricordato che, nel diritto dell’Unione europea, il fumus boni iuris sussiste quando almeno uno dei motivi invocati dal ricorrente appare, a prima vista, non privo di serio fondamento. Ciò può accadere, ad esempio, quando uno di tali motivi riveli l’esistenza di questioni di diritto complesse meritevoli di un esame approfondito che non può essere condotto in sede di tutela cautelare, oppure quando il dibattito tra le parti riveli l’esistenza di una controversia giuridica significativa la cui soluzione non è evidente.

Il Tribunale, alla luce dei fatti in rilievo in questa vicenda, ha riconosciuto, in entrambi i casi, la sussistenza del fumus boni iuris.

Rispetto all’istanza di Vivendi, il Tribunale ha invero osservato che non è evidente che la decisione impugnata non violi il diritto al rispetto della vita privata. Infatti, sebbene esista una base giuridica (ossia l’Art. 11, par. 3 EUMR) per l’esercizio di tali poteri e tale base giuridica persegua obiettivi di interesse generale dell’Unione (ossia la tutela della concorrenza), non è evidente che la decisione della Commissione sia a prima vista conforme al principio di proporzionalità richiamato dall’Articolo 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ossia che la decisione non vada al di là di quanto strettamente necessario per il perseguimento della tutela della concorrenza. In particolare, sebbene la decisione impugnata prevedesse alcune misure procedurali (nello specifico, una data room) per i documenti che contengono dati sensibili e quelli che non hanno alcun rapporto con le attività commerciali di Vivendi, non era prevista alcuna garanzia per i dati personali contenuti negli altri documenti. Inoltre, il Tribunale ha ritenuto irrilevante l’esistenza dell’obbligo di segreto professionale in capo ai funzionari della Commissione.

Con riguardo all’istanza presentata da Lagardère, invece, il Tribunale ha osservato come non fosse prima facie evidente che la ricorrente non fosse effettivamente impossibilitata ad accedere ai dispositivi personali dei dipendenti senza esporsi a sanzioni penali, posto che non è evidente che la decisione della Commissione giustifichi Lagardère a procedere alla raccolta dei documenti senza ottenere il consenso dei dipendenti.

Seppur in sede cautelare, le ordinanze del Tribunale affrontano e anticipano l’importante tema del bilanciamento tra le esigenze di tutela della concorrenza, da un lato, e della tutela del diritto al rispetto della vita privata nel contesto dell’enforcement della Commissione. Non resta che attendere che il Tribunale si pronunci nel merito con sentenza sulle azioni di annullamento proposte dalle due società per conoscere l’esito di questo bilanciamento.

Samuel Scandola

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Intese e settore dei pneumatici – La Commissione europea ha annunciato di aver condotto dawn raids nelle sedi di una società di consulenza in due Stati Membri dell’Unione Europea

Il 18 giugno 2024 la Commissione europea (Commissione) ha reso noto di aver effettuato un’ispezione a sorpresa nelle sedi di una società di consulenza in due Stati Membri dell’Unione Europea. L’ispezione è avvenuta nel contesto di un’indagine sul potenziale coordinamento dei prezzi tra produttori di pneumatici.

La Commissione aveva già effettuato ispezioni a sorpresa nelle sedi di almeno sei produttori di pneumatici nel gennaio 2024, sospettati di aver colluso sul prezzo di fornitura di pneumatici di scorta nel mercato europeo, anche attraverso pubbliche comunicazioni, in cui i produttori avevano attribuito l’incremento dei prezzi dei pneumatici all’inflazione o a dinamiche di mercato. Contestualmente, sono state iniziate 14 class action in tre diverse corti distrettuali statunitensi.

L’aspetto particolare di questo caso non è solo legato al fatto di aver proceduto a una seconda tornata di ispezioni nell’ambito della medesima istruttoria (attività che raramente viene svolta sul presupposto dell’essere venuto meno l’effetto sorpresa), ma altresì che oggetto dell’accertamento ispettivo è stato un soggetto terzo rispetto a quelli direttamente coinvolti nell’attività oggetto di investigazione. Ciò è già avvenuto in passato, sia a livello comunitario (cfr. caso AC-Treuhand), sia a livello nazionale (cfr. Mercato del Calcestruzzo Friuli Venezia Giulia), ma sarà certamente interessante vedere come la Commissione valuterà le caratteristiche dell’attività di tale soggetto terzo – nel caso in rilievo, una società di consulenza, sospettata nello specifico di aver facilitato o istigato un potenziale coordinamento dei prezzi tra i produttori.

Gianguido Ghelardi

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Ispezioni a sorpresa e poteri delle autorità nazionali – L’Avvocato Generale Medina pubblica le proprie conclusioni sui limiti al sequestro di messaggi di posta elettronica di dipendenti da parte della Autoridade da Concorrencia

Lo scorso 20 giugno sono state pubblicate le conclusioni dell’Avvocato Generale Medina (AG), sul rinvio pregiudiziale proposto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) dal Tribunale della concorrenza, regolamentazione e vigilanza del Portogallo (il Tribunale), nell’ambito di tre distinti procedimenti di impugnazione da parte delle società IMI, Synlabhealth II S.A. e il gruppo SIBS (le Società) verso una decisione dell’autorità nazionale portoghese a tutela della concorrenza, l’Autoridade da Concorrencia (AdC).

La vicenda in oggetto concerne in particolare l’applicabilità dell’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), il quale garantisce, inter alia, l’inviolabilità del domicilio e delle comunicazioni private, ai sequestri di messaggi di posta elettronica, contenenti documenti aziendali, dei dipendenti delle società coinvolte nei procedimenti dinanzi all’AdC (i Sequestri).

La legislazione portoghese subordina il diritto dell’AdC di effettuare, nell’ambito della sua attività istruttoria, operazioni di ricerca, esame, recupero e sequestro di documenti all’emissione da parte dell’autorità giudiziaria competente, nella figura del Pubblico Ministero (PM) o, se espressamente previsto, del giudice istruttore, di una apposita autorizzazione. Le Società si erano opposte ai Sequestri, ritenendoli illegittimi nella misura in cui, violando un diritto fondamentale quale il rispetto della corrispondenza privata, necessitavano di un’autorizzazione preventiva da parte del giudice istruttore, e non del PM come invece accaduto.

Alla luce di quanto indicato, il Tribunale ha sottoposto le seguenti questioni pregiudiziali alla CGUE: (i) se i documenti aziendali, trasmessi tramite posta elettronica, costituiscano “corrispondenza” ai sensi dell’articolo 7 CDFUE, come sostenuto dalle Società; (ii) se, di conseguenza, l’articolo 7 CDFUE osti al sequestro di documenti risultanti da comunicazioni effettuate tramite posta elettronica qualora si tratti di indagini su accordi e pratiche vietate ai sensi del diritto dell’Unione Europea; ed infine (iii) se l’articolo 7 CDFUE osti al sequestro di detti documenti anche previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, nella fattispecie il PM. In particolare:

(i) sul primo quesito, l’AG ha ritenuto che i messaggi di posta elettronica volti alla trasmissione di documenti aziendali rientrano nella nozione di “comunicazioni” protette ai sensi dell’articolo 7 CDFUE, poiché – come la CGUE ha già avuto occasione di affermare – tale qualificazione prescinde dalla natura “aziendale” del messaggio di posta elettronica, che dunque non consente di privarlo della protezione fornita dal suddetto articolo;

(ii) sulla seconda questione pregiudiziale, l’AG ha affermato che una limitazione all’inviolabilità delle comunicazioni sancita dall’articolo 7 CDFUE può avere luogo solo al ricorrere di determinate circostanze, che l’AG ha ritenuto sussistenti nei casi in questione, consistenti: (a) nella previsione della limitazione da parte dalla legge; (b) nel rispetto del contenuto essenziale del diritto tutelato; (c) nel rispetto del principio di proporzionalità; e (d) nella necessità della limitazione al fine di perseguire finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione europea o di proteggere i diritti e le libertà altrui; e

(iii) in merito alla terza ed ultima questione, l’AG ha ritenuto che i Sequestri predisposti con autorizzazione da parte del PM sono compatibili con l’articolo 7 CDFUE solo se, da un lato, la normativa e la prassi interne offrono garanzie adeguate e sufficienti contro gli abusi e l’arbitrio nel procedere a tali sequestri, e, dall’altro, se la mancanza di una previa autorizzazione da parte del giudice istruttore può essere controbilanciata dalla possibilità, per la persona interessata dal sequestro, di richiedere ex post un controllo giurisdizionale vertente tanto sulla sua legittimità, quanto sulla sua necessità.

L’AG ha inoltre chiarito che l’articolo 7 CDFUE non osta a che uno Stato Membro applichi un livello di protezione del diritto fondamentale al rispetto delle comunicazioni superiore a quello previsto da tale disposizione, in particolare imponendo all’AdC di ottenere un’autorizzazione giudiziaria preventiva per poter effettuare accertamenti ispettivi e sequestri nei locali di una società.

A questo riguardo, l’AG ha sottolineato che, nell’ordinamento giuridico dell’Unione, la CDFUE costituisce infatti il livello minimo di protezione dei diritti e delle libertà garantiti; e dunque gli Stati Membri hanno la facoltà di prevedere che – conformemente a disposizioni contenute nelle costituzioni nazionali – ingerenze concernenti tali diritti siano preventivamente autorizzate da un’autorità giudiziaria. Tuttavia, precisa l’AG, lo standard di tutela nazionale non deve mai ostacolare il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione, rischiando di pregiudicare, in questo caso, la repressione di pratiche anticoncorrenziali.

Per un quadro aggiornato circa l’approccio interpretativo della CGUE in merito all’applicabilità dell’articolo 7 ai sequestri di documenti contenuti in messaggi di posta elettronica nel quadro di accertamenti sulla violazione di norme concorrenziali, non rimane quindi che attendere la sentenza definitiva e così vedere se la CGUE confermerà l’approccio proposto dall’AG.

Allegra Tucci

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Tutela del consumatore / Tutela del consumatore e settore digitale – A seguito dell’interlocuzione con il Consumer Protection Cooperation Network, Vinted ha adottato una serie di misure orientate alla garanzia dei diritti dei consumatori sul proprio marketplace online

Con il comunicato stampa della Commissione europea (CE) del 18 giugno 2024, è stata annunciata l’adozione, da parte di Vinted, di alcune misure volte a rispondere a una serie di preoccupazioni sollevate dal Consumer Protection Cooperation Network (CPC Network) circa l’osservanza delle norme in materia di tutela del consumatore sul proprio marketplace online.

Il CPC Network è una rete che coinvolge le autorità degli Stati membri competenti in materia di tutela del consumatore, istituita con compiti di cooperazione e coordinamento, e che veda la presenza della CE nonostante il fatto che la stessa non abbia poteri di enforcement in materia. Il confronto tra il CPC Network e Vinted era iniziato nel 2021 a valle di una serie di segnalazioni ricevute in merito ad alcune pratiche scorrette relative alla gestione della sua piattaforma online di intermediazione per la vendita di prodotti di seconda mano, tra cui l’applicazione di una tariffa (la c.d. buyer protection fee) in fase di finalizzazione degli acquisti sulla piattaforma senza alcuna informazione preventiva degli utenti.

A seguito di tale confronto, Vinted ha introdotto una serie di modifiche all’interno del proprio sito internet e della propria app per dispositivi mobili. Tra queste rientrano:

i) l’indicazione preventiva agli utenti del prezzo totale dei beni acquistati sulla piattaforma precedente alla conclusione dell’acquisto, ora comprensivo anche della buyer protection fee;

ii) la rimozione di annunci e claim pubblicitari che suggerivano la gratuità dei servizi offerti sulla piattaforma;

iii) l’indicazione all’utente delle modalità per accedere al rimborso in caso di mancata consegna del prodotto ordinato o consegna di prodotti contraffatti;

iv) l’indicazione trasparente e dettagliata delle procedure di verifica dell’identità degli utenti che pubblicano offerte sul marketplace di Vinted; e

v) l’indicazione dei criteri utilizzati per la revisione degli annunci e il loro posizionamento nel ranking della piattaforma.

Pur essendo stato oggetto delle segnalazioni e delle interlocuzioni con il CPC Network, che ne aveva segnalato la problematicità, è rimasta esclusa dal novero delle misure adottate l’indicazione della circostanza che i prezzi mostrati sulla piattaforma non includono i costi di consegna. Sul punto non è infatti stato trovato accordo tra Vinted e le autorità, le quali hanno, tuttavia, segnalato la possibilità che si intraprendano in futuro azioni di enforcement rispetto a tale questione.

L’intervento in commento testimonia ancora una volta, da un lato, la centralità dei temi di enforcement in materia di tutela del consumatore nei mercati digitali – anche in un contesto profondamente influenzato dall’introduzione del Digital Services Act nel 2022 – e, dall’altro, il rischio connesso alla diffusione di pratiche scorrette con carattere transfrontaliero – che ricordiamo scontano una sanzione fino al 4% del fatturato dell’impresa – e la relativa necessità di coordinare gli interventi delle diverse autorità degli Stati membri.

Alberto Galasso

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Pratiche commerciali scorrette e settore automotive – L’AGCM sanziona DR Automobiles S.r.l. e DR Service & Parts S.r.l. per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli e per non aver garantito sufficienti servizi di assistenza post-vendita né un adeguato rifornimento di pezzi di ricambio

Con la decisione resa lo scorso 11 giugno ad esito del procedimento PS12638, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM) ha sanzionato le società DR Automobiles S.r.l. e DR Service & Parts S.r.l. (congiuntamente, DR) per un totale di EUR 6 milioni, per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette nella fase di pubblicizzazione di veicoli a marchio DR ed EVO (i Veicoli) (la Pratica A), nonché nella fase di assistenza post-vendita e di rifornimento di pezzi di ricambio dei Veicoli (la Pratica B).

Con riguardo alla Pratica A – qualificata come non diligente e ingannevole, ai sensi degli articoli 20, 21 e 22 del Codice del Consumo – essa ha avuto ad oggetto le campagne promozionali condotte da DR, le quali ponevano notevole enfasi sull’asserita “italianità” dei Veicoli, sia tramite l’utilizzo del tricolore italiano come segno distintivo, sia tramite immagini e messaggi pubblicitari che richiamavano a più riprese uno stretto legame con il tessuto produttivo italiano.

Ad avviso dell’AGCM, tale strategia promozionale – suscettibile di generare un notevole effetto “aggancio” – avrebbe così indotto i consumatori a ritenere che le principali attività di progettazione e fabbricazione dei Veicoli (o almeno buona parte di esse) si svolgessero in Italia. Scenario, questo, ben diverso da quanto emerso dall’istruttoria, che ha rivelato come i Veicoli risultino progettati e assemblati sostanzialmente nella loro interezza in Cina, limitandosi poi le attività svolte da DR in Italia a seguito della loro importazione a meri interventi di rifinitura e completamento assolutamente marginali.

Con riguardo, invece, alla Pratica B – qualificata come non diligente e aggressiva, ai sensi degli articoli 20, 24 e 25 del Codice del Consumo – essa ha avuto ad oggetto le condotte poste in essere da DR nella fornitura di servizi di assistenza post-vendita, che hanno determinato una notevole dilatazione dei tempi di attesa che i consumatori hanno dovuto sostenere per ottenere assistenza sui Veicoli.

Più in particolare, l’AGCM ha evidenziato come DR, consapevolmente: (i) non avrebbe diligentemente pianificato e gestito la fase di assistenza post-vendita dei Veicoli, nonostante l’importante campagna pubblicitaria e promozionale di questi ultimi e la significativa crescita delle vendite dei Veicoli registrate negli ultimi anni – elementi, questi, che avrebbero dovuto indurre DR ad “attendersi” un crescente numero di richieste di assistenza; (ii) non avrebbe adottato un sistema adeguato di gestione e monitoraggio degli ordini dei pezzi di ricambio in grado, da un lato, di anticipare il fabbisogno futuro di pezzi di ricambio, e, d’altra parte, di dare risposte certe – e non evasive – sugli effettivi tempi di consegna dei ricambi ordinati; e (iii) avrebbe omesso di fornire alla propria rete di concessionari un’adeguata formazione tecnica sulle caratteristiche dei veicoli commercializzati.

Il provvedimento in esame rappresenta un lucido esempio dell’approccio particolarmente rigoroso adottato dall’AGCM nel settore automotive – testimoniato anche dalla recente istruttoria avviata per una possibile intesa restrittiva della concorrenza nei servizi di manutenzione su autotelai cabinati e complessivi meccanici a marchio Iveco, Mercedes e Renault – e con riguardo ai messaggi pubblicitari capaci di generare un importante effetto “aggancio”, che impone alle imprese una piena e corretta informativa ai consumatori fin dal momento del primo “contatto”, al fine di assicurare a questi ultimi la possibilità di adottare decisioni pienamente consapevoli. Non resta che attendere possibili sviluppi della vicenda, all’esito dell’eventuale giudizio di impugnazione promosso da DR avverso la decisione in commento.

Ignazio Pinzuti Ansolini

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Appalti, concessioni e regolazione / Appalti, concessioni e regolazione – Si può copiare l’offerta tecnica del concorrente, il suo contenuto non è coperto da segreto

Mediante la decisione del 5 aprile scorso, il TAR Napoli ha respinto il ricorso della seconda classificata a cui l’aggiudicataria aveva “copiato” l’offerta risultata poi vincitrice, sulla base della considerazione che l’offerta tecnica non è coperta da segreto.

La vicenda trae origine da una gara che il Comune di Napoli aveva indetto per l’affidamento del servizio di illuminazione votiva ed ambientale nei cimiteri cittadini. Successivamente alla presentazione delle offerte il bando è stato annullato d’ufficio. A seguito di questa decisione, una delle società che aveva partecipato alla gara annullata ha chiesto ed ottenuto l’accesso agli atti della procedura e dell’offerta che aveva presentato un raggruppamento concorrente.

In seguito, il Comune ha bandito una nuova gara per il medesimo servizio e la società che aveva chiesto l’accesso agli atti ha presentato un’offerta identica a quella che aveva presentato il raggruppamento concorrente nella procedura poi annullata.

Questa offerta è risultata vincitrice e il raggruppamento concorrente ha impugnato l’aggiudicazione, lamentando che l’operatore aggiudicatario aveva sostanzialmente copiato l’offerta.
Secondo il raggruppamento ricorrente l’offerta vincitrice presentava numerosi elementi copiati dall’offerta della prima procedura, quali la previsione di un’app, l’apertura di un ufficio esterno al cimitero di Poggioreale, o ancora la dotazione di tablet e veicoli elettrici al personale operativo. Elementi che secondo il ricorrente comprovavano la violazione del segreto industriale e commerciale contenuto nell’offerta che aveva presentato nella prima procedura annullata.

Con la decisione in esame, il TAR ha respinto il ricorso.

Pur ammettendo le somiglianze tra le due offerte, il TAR ha ritenuto che l’originalità delle stesse non fosse elemento di valutazione nella gara. Inoltre, ha sottolineato come il segreto industriale o commerciale non possa estendersi anche al contenuto delle offerte, nel cui ambito non può ricadere qualsiasi elemento di originalità dello schema tecnico-organizzativo del servizio offerto, essendo riservato esclusivamente alle elaborazioni e studi ulteriori di carattere specialistico.

La decisione ha poi sostenuto “fisiologico della dinamica concorrenziale che ogni operatore economico, pur avendo una specifica organizzazione, propri contatti commerciali e idee differenti da applicare alle esigenze della clientela, possa arricchirle, anche grazie al confronto con gli altri operatori del settore, elaborando le passate esperienze”.

È chiaro che in mancanza di una formale privativa industriale, la presentazione di un’offerta in una gara pubblica è necessariamente soggetta a principi di trasparenza. Al tempo stesso, la decisione in esame solleva un tema sulle conseguenze che possono derivare quando non si tutela adeguatamente la riservatezza delle informazioni sensibili contenute nell’offerta.

Giulia Valenti