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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 22 maggio 2023
Diritto della concorrenza – Europa / Concentrazioni e settore del gaming – La Commissione europea ha autorizzato con condizioni l’acquisizione di Activision Blizzard da parte di Microsoft
Con il press release del 15 maggio, la Commissione europea (la Commissione) ha comunicato di aver approvato l’acquisizione di Activision Blizzard, Inc. (Activision) da parte di Microsoft Corporation (Microsoft) (l’Operazione), condizionandola tuttavia agli impegni presentati in sede di istruttoria (gli Impegni), considerati dalla Commissione idonei non solo a dissipare le criticità concorrenziali individuate nel corso del procedimento, ma anche ad ampliare il mercato del cloud gaming.
Come già indicato in questa Newsletter, la Commissione aveva avviato in data 8 novembre 2022 la fase istruttoria per valutare i rischi concorrenziali potenzialmente derivanti dall’Operazione, considerato che: (i) entrambe le società sviluppano e commercializzano giochi per PC, console e dispositivi mobili; (ii) Microsoft è altresì attiva nell’offerta di una propria console (la Xbox), oltre che offrire un’ampia gamma di prodotti e servizi, tra cui il sistema operativo per PC ‘Windows’ ed un proprio servizio di cloud game streaming (ossia ‘Game Pass Ultimate’); (iii) il portafoglio giochi di Activision comprende prodotti molto noti nel settore del gaming, come Call of Duty, World of Warcraft, Overwatch e Diablo. La Commissione, infatti, aveva ritenuto che l’Operazione potesse significativamente ridurre la dinamica competitiva nei mercati (i) della distribuzione dei videogiochi per console e PC (il quale include anche i servizi di multi-game subscription e di cloud gaming) e (ii) dei sistemi operativi per PC; secondo la Commissione Microsoft avrebbe avuto la possibilità e l’incentivo ad impedire la (o peggiorare significativamente le condizioni di) distribuzione di videogiochi di maggior successo di Activision su console e servizi di cloud gaming di operatori terzi come Sony (che produce la PlayStation, la principale console rivale di Xbox), a tutto vantaggio della propria console e dei propri servizi. Inoltre la forte integrazione tra il catalogo di videogiochi di Activision, il sistema operativo Windows e le tecnologie di cloud gaming avrebbe indebolito il mercato dei sistemi operativi per PC.
La Commissione ha successivamente parzialmente modificato la propria analisi, indicando come l’Operazione non permetterebbe a Microsoft di danneggiare i produttori di console (come Sony) nonché i fornitori di servizi di multi-game subscription concorrenti, posto che Microsoft non avrebbe alcun incentivo a rifiutare di distribuire i giochi di Activision a Sony (ossia il principale distributore di giochi per console in tutta Europa). Sul punto, l’analisi istruttoria ha peraltro permesso alla Commissione di concludere che anche se Microsoft decidesse di non rendere disponibili i giochi di Activision per la PlayStation (ossia la console di Sony), ciò non danneggerebbe in modo significativo la concorrenza nel mercato delle console. Nonostante Call of Duty sia il prodotto di punta di Activision e sia largamente applicato su console, tale preferenza sembrerebbe essere minore nel mercato comunitario rispetto ad altri.
Tuttavia, la Commissione ha confermato che l’Operazione avrebbe potuto limitare la concorrenza nella distribuzione di giochi tramite servizi di cloud streaming, nonché un rafforzamento della posizione di Microsoft nel mercato dei sistemi operativi per PC. Sul punto, infatti, data la popolarità dei giochi di Activision, la Commissione ha sostenuto che se Microsoft li rendesse esclusivi per il proprio servizio di cloud streaming, ‘Game Pass Ultimate’, ciò potrebbe incidere in maniera sensibile sulla concorrenza in tale mercato, con un rafforzamento anche nel mercato dei sistemi operativi per PC.
Microsoft ha quindi presentato i seguenti Impegni della durata di 10 anni, in base ai quali la Commissione ha autorizzato l’Operazione: (i) in primis ha garantito una licenza gratuita per i consumatori presenti in Europa, atta a consentire loro di giocare in streaming, tramite qualsiasi servizio di cloud game streaming, tutti i giochi per PC e console attuali e futuri di Activision per i quali abbiano già una licenza; nonché (ii) ha garantito una licenza gratuita a favore di tutti i fornitori europei di servizi di cloud game streaming atta a consentire loro di trasmettere in streaming qualsiasi gioco per PC e console di Activision.
La decisione della Commissione si pone peraltro in netto contrasto con le conclusioni adottate dalla Competition and Markets Authority (la CMA) britannica lo scorso 26 febbraio (si veda questa Newsletter). Quest’ultima, infatti, non ha autorizzato l’Operazione, ritenendo le criticità concorrenziali (relative in particolare a ipotesi di input foreclosure) derivanti da quest’ultima in grado di falsare in maniera definitiva e duratura le dinamiche concorrenziali nei mercati a valle della (i) vendita delle console per videogiochi e della (ii) fornitura dei servizi di cloud gaming, entrambi mercati rispetto ai quali veniva dunque ravvisato un rischio in relazione all’accesso a taluni input, ossia i videogiochi nel portfolio di Activision. L’evidente incompatibilità delle conclusioni a cui sono giunte le due autorità coinvolte non è tuttavia definitiva, essendo la decisione della CMA al vaglio del Competition Appeal Tribunal mediante una procedura di urgenza. Sarà quindi interessante capire se (e quanto) il giudice britannico deputato a rivedere la decisione in esame potrà tenere conto anche delle diverse conclusioni della Commissione.
Luca Feltrin
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Concentrazioni e settore energetico – Il Tribunale dell’UE ha respinto i ricorsi presentati da EVH ed Enercity contro la decisione della Commissione europea che autorizzava una serie di trasferimenti di asset energetici tra le società E.ON e RWE AG
Il Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) si è pronunciato sui ricorsi presentati dalle società Enercity AG (Enercity) e EVH GmbH (EVH) contro le decisioni della Commissione europea (la Commissione) con cui aveva autorizzato una serie di operazioni di trasferimento di asset tra le società RWE AG (RWE) e E.ON SE (E.ON), tutte attive nel settore energetico. In sintesi, i trasferimenti in esame avevano comportato: 1) l’acquisizione del controllo esclusivo o congiunto di alcuni impianti di produzione di E.ON da parte di RWE; e 2) l’acquisizione del controllo esclusivo delle attività di distribuzione, di commercio al dettaglio e di alcuni impianti di produzione riconducibili a RWE da parte di E.ON. A queste si aggiungeva una terza operazione consistente nell’acquisizione di una partecipazione minoritaria nel capitale di E.ON da parte di RWE. Di dette operazioni solo le prime due erano state notificate alla Commissione, la terza era stata invece esaminata dalla sola autorità della concorrenza tedesca.
Il Tribunale ha, in primo luogo, dichiarato inammissibile il ricorso presentato da Enercity evidenziandone la mancanza di legittimazione ad agire. Nella sentenza, ha infatti ricordato come, a norma delle disposizioni del TFUE, una persona fisica o giuridica possa proporre un ricorso contro una decisione adottata nei confronti di un soggetto diverso solo nei casi in cui tale decisione la riguardi (i) direttamente e (ii) individualmente.
Riguardo al criterio dell’incidenza individuale di cui al punto (ii), i giudici hanno specificato come questa debba valutarsi in funzione (a) dell’incidenza sulla posizione di mercato della ricorrente e (b) della sua partecipazione al procedimento amministrativo. Rispetto a quest’ultima, il Tribunale vi ha riconosciuto un elemento che, seppur non sufficiente da solo a dimostrare l’interesse individuale della ricorrente, è regolarmente preso in considerazione dalla giurisprudenza ove abbia i caratteri di una partecipazione “attiva”.
Nel caso in commento, Enercity si era limitata a presentare osservazioni circoscritte e non aveva dato seguito al questionario trasmesso dalla Commissione per la relativa indagine di mercato. Tali circostanze sono state considerate sufficienti dalla Commissione ad escludere una partecipazione “attiva” di Enercity al procedimento, la quale si realizza solo ove la ricorrente abbia presentato elementi determinanti per valutare gli effetti della concentrazione esaminata sul mercato rilevante.
Nell’ambito del ricorso presentato da EVH – ritenuto al contrario ammissibile – il Tribunale ha, invece, precisato i termini della nozione di concentrazione unitaria. In particolare, ha ricordato il principio secondo cui più operazioni possano essere considerate parti di una concentrazione unitaria laddove siano (i) tra loro interdipendenti, tanto da non potersi realizzare l’una senza l’altra, e (ii) orientate a conferire ad una delle parti il controllo diretto o indiretto sull’attività di una o più altre imprese. Tali presupposti devono, secondo il Tribunale, interpretarsi come cumulativi, di modo che nei casi – come in quello in oggetto – in cui più operazioni, pur interdipendenti, non conferiscano alcuna forma di controllo, le operazioni debbano essere considerate singolarmente. Infatti, il Tribunale ha accolto la posizione della Commissione che aveva considerato le tre operazioni in questione come operazioni distinte, avendo avuto ognuna di esse un diverso oggetto e, rispettivamente, (1) alcuni asset di E.ON, (2) alcuni asset riconducibili a RWE, e (3) il capitale di E.ON. Nonostante, quindi, il loro collegamento funzionale, esse non risultavano orientate al trasferimento di alcun controllo, oggettivo o soggettivo, su alcuna impresa specifica (compresa E.ON).
Il Tribunale ha affrontato, infine, il tema della c.d. collective influence, ovvero la circostanza per cui dalla presenza dei medesimi investitori istituzionali nel capitale di entrambe le parti di un’operazione – benché senza che agli stessi possa attribuirsi alcuna forma individuale di controllo – possa comunque derivare una restrizione della concorrenza anche in casi di trasferimenti di quote o asset altrimenti non rilevanti.
Nel caso in commento la ricorrente aveva lamentato, tra le altre cose, l’omessa valutazione da parte della Commissione della partecipazione di alcuni soci sia al capitale di RWE che a quello di E.ON. Rispetto a ciò, i giudici hanno riaffermato la possibilità per la Commissione di tener conto della presenza di un azionariato comune come un elemento esterno nella valutazione della concentrazione. Hanno riconosciuto, infatti, come tale circostanza possa – in astratto – condurre ad una sottostima del livello di concentrazione del mercato e, di conseguenza, della posizione concorrenziale delle parti.
Rispetto al caso in questione, tuttavia, il Tribunale ha giustificato l’omesso riferimento della Commissione al fenomeno della collective influence. Ha evidenziato infatti come la presenza di un azionariato comune non possa da solo comportare una restrizione della concorrenza in assenza della prova di un coordinamento tra i soci comuni e RWE, di cui sarebbe onerata la ricorrente. Il Tribunale ha quindi rigettato il relativo motivo di ricorso, essendosi EVH limitata a evocare rischi concorrenziali senza fornire alcuna prova di tale coordinamento.
Con le decisioni in commento, che si inseriscono in una vicenda fattuale particolarmente articolata, il Tribunale ha colto quindi l’occasione per consolidare, tra gli altri, i requisiti della legittimazione attiva delle ricorrenti e i caratteri della nozione di concentrazione unitaria fissati nel Regolamento UE n. 139/2004 e nella Jurisdictional Notice della Commissione del 2008 contribuendo a chiarire questioni ancora spesso oggetto della sua attività.
Alberto Galasso
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore energetico – Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio annulla i provvedimenti cautelari adottati dall’AGCM in tre procedimenti distinti in materia di variazione delle condizioni economiche di fornitura di elettricità e gas
Mediante tre sentenze di tenore analogo pubblicate il 17 e il 19 maggio scorso (le Sentenze), il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (il TAR) ha accolto i ricorsi promossi da Enel Energia S.p.A. (Enel), Eni Plenitude S.p.A. (Plenitude) e Acea Energia S.p.A. (Acea) (congiuntamente, le Imprese) avverso i provvedimenti cautelari adottati nei loro confronti dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) anche sulla base di asserite violazioni dell’art. 3 del Decreto Legge n. 115 del 9 agosto 2022 (il D.L. Aiuti-bis), convertito con la l. 142/2022, e della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette.
La vicenda trae origine dai numerosi provvedimenti cautelari – già oggetto di commento nella presente Newsletter – adottati tra novembre e dicembre dello scorso anno dall’AGCM nei confronti delle Imprese e di altri operatori attivi nel settore energetico, con i quali l’AGCM aveva ritenuto che alcune condotte adottate da tali operatori – consistenti, sostanzialmente, nell’applicazione di nuove condizioni economiche (le CE) a contratti di fornitura al dettaglio di energia elettrica e gas a seguito dell’eccezionale contesto di crisi energetica che ha colpito i paesi dell’Unione Europea, inclusa l’Italia – violassero la disciplina ad hoc dettata dal D.L. Aiuti-bis, volta a proteggere i consumatori in via eccezionale e temporanea, con ciò costituendo altresì pratiche commerciali scorrette in violazione del codice del consumo.
Tali provvedimenti si fondavano su un’interpretazione particolarmente estensiva del D.L. Aiuti-bis fatta propria dall’AGCM, secondo cui il D.L. Aiuti-bis perseguirebbe l’obiettivo di sterilizzare, inizialmente fino al 30 aprile 2023, qualsiasi clausola contrattuale che avesse permesso la variazione delle CE da parte degli operatori nel corso del rapporto, a prescindere dalle modalità e del regolamento contrattuale.
Tuttavia, già a seguito dell’ordinanza n. 5986 del 2022 (l’Ordinanza) del Consiglio di Stato (il CdS) – resa su ricorso di uno degli operatori destinatari delle misure cautelari, e anch’essa oggetto di commento nella presente Newsletter – nonché del Decreto Milleproroghe di inizio gennaio che aveva fornito un’interpretazione autentica del D.L. Aiuti-bis in linea con l’Ordinanza, l’AGCM era stata costretta a tornare sui propri passi, parzialmente riformulando i provvedimenti cautelari nei confronti delle Imprese, e limitando le proprie censure alle sole modifiche alle CE relative ai contratti a tempo indeterminato per i quali non era specificamente individuabile o predeterminabile una scadenza delle CE.
Con le Sentenze oggetto del presente commento, dunque, il TAR ha offerto importanti chiarimenti sull’ambito applicativo del D.L. Aiuti-bis, sostanzialmente aderendo all’interpretazione offerta dal CdS nell’Ordinanza ed al Milleproroghe. Secondo il TAR, infatti, l’errore dell’AGCM cade sia sull’individuazione della ratio del D.L. Aiuti-bis (e dunque anche della sua portata oggettiva), sia sull’esatta qualificazione giuridico/fattuale del comportamento delle Imprese.
Con riguardo alla ratio del D.L. Aiuti-bis, infatti, il TAR sottolinea come da un’analisi attenta del testo normativo – anche come detto alla luce dell’interpretazione originaria della norma, offerta dal Decreto Milleproroghe – si ricava che mediante il D.L. Aiuti-bis si è previsto non già un congelamento tout court dei contratti di fornitura nella loro interezza, bensì la sospensione di solo alcuni specifici poteri contrattuali. E dal momento che le condizioni generali dei contratti predisposti dalle Imprese non si occupavano della determinazione delle CE – demandata ad un separato accordo contrattuale, distinto per ogni singolo consumatore – secondo il TAR mediante il D.L. Aiuti-bis “…[n]on appare essere stato imposto dal legislatore alcun divieto all’aggiornamento delle condizioni economiche scadute, atteso che quest’ultima fattispecie si sviluppa senza variazione delle condizioni generali del contratto…”, dovendosi circoscrivere l’area di operatività di tale sospensione “…[a]lle sole ipotesi più gravi di esercizio arbitrario del diritto di variare unilateralmente le condizioni di forniture…”, per esempio in violazione dei termini di scadenza delle CE, disciplinati dalle condizioni generali di contratto.
Infine, con riguardo alla qualificazione giuridico/fattuale del comportamento delle Imprese, il TAR ha ritenuto viziati i provvedimenti anche nella misura in cui l’AGCM aveva ritenuto che l’omessa indicazione (nella comunicazione inviata dalle Imprese alla propria utenza, nella quale le prime richiamavano l’imminente scadenza delle CE previgenti e la futura applicazione delle nuove CE) della data di scadenza delle CE previgenti determinasse ex se l’illiceità della pratica. Ad avviso del TAR, infatti, l’omissione di tale informazione, come pure la semplice indicazione di una risalente scadenza delle CE, non può determinare l’illiceità della pratica ex se, dal momento che “…[l]’utente può ricostruire induttivamente tale dato, alla luce delle varie proroghe man mano succedutesi nel tempo…”; inoltre, sempre ad avviso del TAR, laddove il contratto disciplini specificamente le modalità di aggiornamento delle CE non può sostenersi che l’omissione da parte dell’impresa di una comunicazione periodica di aggiornamento possa “…[c]onsolidare sine die le precedenti condizioni economiche…”.
Le Sentenze in commento risultano di particolare interesse, dal momento che offrono un’importante ricostruzione del contenuto del D.L. Aiuti-bis, coerente con i consolidati principi di matrice costituzionale ed euro unitaria in materia di interpretazione delle disposizioni legislative che comportano limiti alla libertà contrattuale delle imprese. Non resta che attendere l’evolversi della vicenda, sia dinanzi ai giudici amministrativi, sia dinanzi all’AGCM, nonché le ulteriori sentenze che ancora devono essere pubblicate dal TAR in relazione ad analoghi ricorsi aventi ad oggetto i provvedimenti cautelari dell’AGCM adottati sostanzialmente sulla medesima interpretazione del D.L. Aiuti-bis.
Ignazio Pinzuti Ansolini
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Appalti, concessioni e regolazione / Questione di legittimità costituzionale – Il Consiglio di Stato ha concluso per l’irrilevanza se la questione è sollevata in appello e l’assenza di responsabilità del legislatore
Con la sentenza del 4 maggio 2023 n. 4523, il Consiglio di Stato (il CdS) ha, da un lato, ritenuto che non possono essere ritenute rilevanti questioni di costituzionalità che riguardano norme la cui violazione non è stata tempestivamente dedotta in primo grado e, dall’altro, ha confermato che non è ammissibile una domanda di risarcimento per lesione del legittimo affidamento in caso di approvazione di una legge poi dichiarata incostituzionale.
La vicenda originava dal rilascio di un’autorizzazione unica per la realizzazione di un impianto di produzione di energia rinnovabile a favore di un operatore economico da parte della Regione Molise, in una zona di interesse per la tutela degli uccelli selvatici. A seguito dell’impugnazione del provvedimento autorizzativo da parte di diversi Comuni dell’area, la Regione procedeva ad annullarlo in autotutela rilevando la contrarietà dell’autorizzazione con una legge regionale che, per quanto qui interessa, vietava la realizzazione degli impianti di energia rinnovabile nelle aree rilevanti per la conservazione degli uccelli selvatici, tra cui, appunto, la zona interessata dall’impianto da realizzare.
L’operatore economico procedeva ad impugnare il provvedimento di annullamento d’ufficio lamentandone l’illegittimità per assenza dei presupposti e domandando in subordine il risarcimento del danno per lesione del legittimo affidamento. A fronte del rigetto di tutte le domande da parte del TAR Molise, l’operatore proponeva appello al CdS, riproponendo le domande sollevate in primo grado, nonché eccependo per la prima volta l’illegittimità costituzionale della legge del Molise che, in tesi, avrebbe invaso la competenza del legislatore nazionale, a cui è demandata in via esclusiva la valutazione circa la definizione delle aree non idonee per la realizzazione di impianti di energia rinnovabile.
Il CdS ha precisato i casi in cui è possibile sollevare per la prima volta in appello una questione di legittimità costituzionale, nonostante la questione di legittimità costituzionale di una norma sia sempre rilevabile d’ufficio. Il CdS ha concluso che in ogni caso la valutazione della rilevanza della questione da parte del giudice deve essere sempre effettuata nell’ambito della domanda svolta dalla parte in primo grado. In altri termini, se la questione di costituzionalità non inerisce ai motivi di impugnazione presentati dalla parte in primo grado, ed in quanto tali immutabili, secondo il CdS ciò starebbe a dimostrare la non rilevanza per il thema decidendum e quindi la non possibilità di procedere in quel senso.
Sul punto, si è osservato che, anche a fronte di una sentenza di incostituzionalità da parte del giudice delle leggi, il ricorrente non avrebbe tratto alcun giovamento, né con riferimento alla domanda di annullamento, né con riferimento alla domanda risarcitoria. Nel primo caso, infatti, il CdS ha ritenuto che l’eventuale incostituzionalità della legge del Molise incriminata per violazione della competenza del legislatore statale non avrebbe comportato la caducazione del provvedimento di annullamento in autotutela in quanto, tale profilo di illegittimità non era stato dedotto in primo grado, con la conseguenza che su tale profilo il provvedimento doveva considerarsi ormai consolidato.
Per completezza si segnala che il CdS distingue tra le ipotesi in cui la norma dichiarata incostituzionale incida (a) sulla modalità in cui il potere amministrativo deve essere esercitato ovvero (b) sulla sussistenza o meno del potere amministrativo esercitato. Nella prima ipotesi, certamente meno grave e riscontrata nel caso oggetto della sentenza in commento, l’incostituzionalità della norma primaria non comporta l’annullamento del provvedimento ritualmente impugnato per profili diversi rispetto a quelli oggetto della decisione di incostituzionalità. Al contrario, nella più grave ipotesi (b) si afferma che l’incostituzionalità della norma comporta sempre la caducazione del provvedimento amministrativo ritualmente impugnato, anche se su profili diversi.
Con riferimento alla domanda risarcitoria, il CdS ha ribadito la costante giurisprudenza secondo cui, a differenza dei casi di provvedimenti amministrativi illegittimi, non è configurabile un diritto al risarcimento a fronte di un cattivo esercizio del potere legislativo, in quanto l’attività legislativa è un’attività libera nel fine che non ammette situazioni soggettive dei singoli protetti dall’ordinamento e che pertanto una norma incostituzionale non può dar luogo ad una situazione di “danno ingiusto”.
In conclusione, la pronuncia afferma l’importante principio processuale secondo cui la rilevanza della questione di costituzionalità nel giudizio amministrativo in appello dipende (i) dalla natura della norma oggetto della censura di incostituzionalità e (ii) dal perimetro della domanda spiegata in primo grado. Infatti, salvo il caso in cui la legge incostituzionale costituisca il fondamento del potere amministrativo, la questione di costituzionalità è ammissibile in appello solamente qualora il ricorrente abbia articolato uno specifico motivo relativo alla illegittimità costituzionale della norma – o almeno qualora abbia utilizzato tale norma come parametro di legittimità dei motivi di ricorso – già in primo grado.
Enrico Mantovani