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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza – Europa / Aiuti di stato e disciplina fiscale – Il tax ruling accordato dal Lussemburgo in favore di Fiat Chrysler non rappresenta un aiuto di Stato
Con la sentenza pubblicata lo scorso 8 novembre, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha dichiarato che il tax ruling accordato dal Granducato di Lussemburgo (Lussemburgo) in favore di Fiat Chrysler Finance Europe (FFT), un’impresa del gruppo Fiat che fornisce servizi di tesoreria e di finanziamento alle società del gruppo con sede in Europa (escluse quelle con sede in Italia), non rappresenta un aiuto di Stato incompatibile con le norme del mercato interno.
Ripercorrendo brevemente i fatti, nel 2012 FFT aveva raggiunto con l’amministrazione del Lussemburgo un c.d. Advance Pricing Agreement, ossia un accordo fiscale (c.d. tax ruling) che aveva permesso di concordare anticipatamente la metodologia di calcolo applicabile all’allocazione di profitti risultanti dalle operazioni infragruppo, con ciò permettendo a FFT di beneficiare di una maggiore prevedibilità del carico fiscale. La Commissione europea (la Commissione) aveva avviato una indagine ad esito della quale nel 2015 aveva ritenuto che tale accordo fiscale avesse concesso un vantaggio selettivo di cui l’intero gruppo Fiat/Chrysler avrebbe beneficiato. Nel 2019 il Tribunale dell’UE (il Tribunale), con una sentenza commentata in questa Newsletter, confermava l’incompatibilità dell’agevolazioni fiscali in questione.
Di diverso avviso è stata ora invece la CGUE che, con la sentenza in commento, ha ribaltato una delle poche vittorie in primo grado della Commissione in materia di controllo fiscale in materia di aiuti di Stato.
Più precisamente, la CGUE ha rilevato un errore di diritto riguardo la corretta individuazione del sistema di riferimento applicato dalla Commissione per la valutazione della misura ex art. 107 TFUE (ossia il regime fiscale di base che viene considerato dalla Commissione come parametro di riferimento per valutare la sussistenza del vantaggio selettivo), che avrebbe dovuto essere quello ricomprendente solo le imprese soggette alle norme in materia di prezzi di trasferimento, e non invece il sistema generale dell’imposta sulle società del Lussemburgo. Infatti, secondo la CGUE, il Tribunale avrebbe escluso erroneamente la pertinenza di specifiche norme del diritto interno nazionale lussemburghese sulla tassazione dei gruppi di società costituenti per l’appunto la base giuridica corretta del tax ruling.
Inoltre, avallando l’approccio della Commissione, il Tribunale non avrebbe tenuto conto del principio di libera concorrenza (principio secondo cui le operazioni infragruppo devono essere valutate ai fini fiscali come effettuate da società indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza) come interpretato dal diritto lussemburghese alla luce delle disposizioni specifiche menzionate sopra, andando in questo modo a violare anche le disposizioni del TFUE relative all’adozione da parte dell’Unione europea di misure di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di imposte dirette.
La sentenza in commento è interessante nella misura in cui sancisce che l’analisi della Commissione sul sistema di riferimento e, per estensione, dell’esistenza di un vantaggio selettivo, deve in ogni caso (anche in relazione a operazioni infragruppo) tener conto delle scelte normative fiscali stabilite dal legislatore dello Stato membro interessato. Quindi, al di fuori dei settori in cui il diritto tributario dell’Unione è oggetto di armonizzazione, spetta esclusivamente allo Stato membro interessato il compito di determinare, attraverso l’esercizio delle proprie competenze in materia di imposte dirette e nel rispetto della propria autonomia fiscale, le caratteristiche costitutive dell’imposta.
Maria Spanò
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Intese e azioni di risarcimento dei danni c.d. follow-on – La CGUE ha stabilito che il giudice civile può ordinare alle parti l’esibizione di elementi di prova da creare ex novo
Con la sentenza pubblicata lo scorso 10 novembre, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) si è pronunciata su un rinvio pregiudiziale presentato dal Tribunale di Commercio n. 7 di Barcellona (il giudice del rinvio) nell’ambito di un’azione di risarcimento dei danni c.d. follow-on promossa da 45 acquirenti di autocarri contro PACCAR Inc., DAF Trucks NV e DAF Trucks Deutschland GmbH per ottenere il risarcimento del danno da illecito antitrust alla luce della decisione della Commissione sull’ormai nota infrazione accertata nei confronti dei principali produttori di autocarri in Europa (la Decisione). In particolare, la questione pregiudiziale oggetto di commento verte sulla compatibilità con l’articolo 5 della Direttiva 2014/104 (la Direttiva Danni) della richiesta delle attrici di ordinare alle convenute, ai sensi della disposizione nazionale di procedura civile che recepisce tale articolo, la produzione di alcuni documenti da crearsi ad hoc per fornire una rappresentazione riassuntiva dei prezzi da queste raccomandati prima, durante e dopo il periodo dell’infrazione individuato dalla Decisione.
Dopo aver confermato l’applicabilità ratione temporis delle disposizioni della Direttiva Danni, confermando la natura processuale - ovvero non sostanziale - del summenzionato articolo 5, la CGUE ha sostanzialmente confermato le conclusioni presentate in merito dall’Avvocato Generale Szpunar (già oggetto di commento in questa Newsletter). Nello specifico, la CGUE si è dapprima interrogata sull’ampia nozione di “prova” ai sensi dell’articolo 2(13) della Direttiva, rilevando come da questa non sia possibile riscontrare alcuna distinzione in ragione del carattere preesistente o meno degli elementi probatori. In secondo luogo, la Corte ha evidenziato una sottile differenza nella formulazione del seguente articolo 5(1) il quale prevede che le prove rilevanti di cui si chiede l’esibizione siano “nel controllo” unicamente della convenuta, e non dell’attrice. Tuttavia, da ciò non sarebbe in alcun modo possibile inferire una limitazione dell’ambito di applicazione della Direttiva Danni alle sole prove preesistenti, essendo invece questo inciso, secondo la CGUE, una mera constatazione del legislatore europeo circa l’asimmetria informativa di fondo che caratterizza l’applicazione delle regole della concorrenza a livello privatistico. Infatti, poiché si presuppone che gli elementi di prova non siano sufficientemente noti all’attore, sarebbe del tutto contraddittorio richiedere che questi fossero “nel [suo] controllo”.
In aggiunta, alla stregua del giudice del rinvio, la CGUE ha successivamente sottolineato che l’articolo 5(3.b) della Direttiva Danni demanda al giudice nazionale il compito di operare una valutazione sull’opportunità della richiesta nel rispetto del principio di proporzionalità, da apprezzarsi anche alla luce della “portata e dei costi della divulgazione”. Una siffatta disposizione, infatti, implicherebbe necessariamente che il costo della produzione delle prove possa eventualmente eccedere significativamente quello della semplice trasmissione di documenti in possesso della convenuta o di un terzo. Infine, la CGUE ha stabilito che escludere a priori la facoltà di chiedere la divulgazione di elementi di prova che la parte destinataria della domanda dovrebbe creare ex novo condurrebbe, in taluni casi, a rendere più difficile l’applicazione delle regole di concorrenza dell’Unione da parte dei privati, in pieno contrasto dunque con l’obiettivo stesso della Direttiva Danni. Va altresì notato che tale interpretazione “estensiva” non incide in alcun modo sull’equilibrio tra gli interessi delle parti così come configurato dalla Direttiva in quanto il meccanismo di bilanciamento demandato al giudice nazionale dai paragrafi 2 e 3 dell’articolo 5 impedisce in ogni caso un’ipotetica ed indebita inversione dell’onere probatorio posto a carico dell’attore.
Pertanto, la CGUE ha stabilito che l’articolo 5 della Direttiva Danni deve essere interpretato nel senso di ricomprendere nel suo ambito di applicazione anche gli elementi di prova che la parte destinataria della richiesta di divulgazione dovrebbe creare ex novo, mediante l’aggregazione o la classificazione di informazioni, conoscenze o dati in suo possesso, nel rigoroso rispetto della limitazione ivi contenuta a quanto è pertinente, proporzionato e necessario, tenuto conto degli interessi legittimi e dei diritti fondamentali della parte destinataria della richiesta. A ben guardare, la portata innovativa di tale sentenza si deve cogliere con riferimento alle potenziali conseguenze non solo per le convenute, ma anche per le stesse parti attrici. A quest’ultime, infatti, potrebbe essere ora richiesta anche la produzione di documenti ad hoc volti a provare (a favore della parte convenuta) l’eccezione di traslazione a valle del sovrapprezzo (il cd. passing-on).
La sentenza in commento appare pertanto rappresentare un ulteriore e deciso passo verso l’effettiva eliminazione o, quantomeno, riduzione, della endemica asimmetria informativa esistente in tale tipologia di contenziosi su entrambi i fronti della controversia.
Niccolò Antoniazzi
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Intese e settore del tondino per il cemento armato – Il Tribunale dell’Unione Europea conferma le sanzioni irrogate dalla Commissione a numerose imprese italiane attive nella produzione di tondini per cemento armato, ad oltre 20 anni dalla cessazione della condotta contestata
Dopo la triade delle decisioni della Commissione europea (la Commissione) riguardanti la medesima intesa nel mercato italiano del tondo per cemento armato intervenute negli ultimi 20 anni, il Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) ha ora respinto gli ulteriori ricorsi proposti da quattro delle otto imprese sanzionate dalla Commissione per le condotte poste in essere tra il 1989 ed il 2000.
In particolare, con le sentenze T 655/19, T 656/19, T 657/19, T 667/19, il Tribunale si pronuncia sulle condizioni secondo cui la Commissione può adottare una decisione sanzionatoria quasi vent’anni dopo l’inizio dei fatti costitutivi dell’infrazione, e sulla legittimità del regime di interruzione e sospensione del termine di prescrizione in relazione all’imposizione di ammende. Con l’occasione il Tribunale fornisce anche alcuni chiarimenti circa le modalità di applicazione della recidiva.
Appare utile brevemente ripercorrere i tratti salienti di quella che appare come una vera e propria saga procedurale: una prima decisione sanzionatoria della Commissione del 2002 era stata annullata dal Tribunale nel 2007 a causa dell’errata base giuridica su cui la stessa era fondata; una seconda decisione sanzionatoria, adottata nel 2009 a seguito dell’annullamento con rinvio operato dal Tribunale, sempre sulle stesse condotte e contro le stesse imprese, era stata annullata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (la CGUE) a causa della mancata audizione delle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri. Si giunge infine alla decisione della Commissione C (2019) 4969 final qui in commento nella quale viene ribadito l’accertamento dell’intesa in rilievo ma la relativa ammenda viene ridotta del 50% a motivo della lunga durata del procedimento.
Non disposte a lasciare niente di intentato, alcune delle imprese coinvolte nella vicenda hanno deciso di impugnare anche tale terza la decisione, in primis in merito alla asserita irregolarità nell’organizzazione della nuova audizione da parte della Commissione dovuta alla assenza di alcune entità che avevano svolto un ruolo importante nell’istruzione della pratica ed altri vizi perlopiù procedurali. Ad esito del processo di primo grado il Tribunale ha ora stabilito che la Commissione ben poteva riprendere il procedimento a partire dalla fase della audizione non rilevando, ai fini dell’imparzialità, il fatto che i rappresentanti della autorità garanti della concorrenza conoscevano le prime due decisioni.
Rispetto al principio del termine ragionevole del procedimento, il Tribunale ha quindi constatato che la Commissione aveva analizzato la lunghezza del procedimento amministrativo prima di adottare la decisione impugnata, così come le cause che potevano giustificarne la durata. Sul punto, il Tribunale ha precisato tuttavia che si può giungere all’annullamento di una decisione solo alla duplice condizione che la durata del procedimento sia stata irragionevole e che detto superamento del termine ragionevole abbia ostacolato l’esercizio dei diritti della difesa.
Tenuto conto complessità del caso, del comportamento delle parti ricorrenti e di quello delle autorità competenti, nonché delle interruzioni durante il sindacato giurisdizionale sopra richiamato legato al numero di ricorsi proposti dinanzi al giudice dell’Unione, si è ritenuto che le ricorrenti avessero avuto l’occasione di esporre i loro argomenti nel corso dell’intero procedimento, di modo tale che i loro diritti di difesa erano stati pienamente rispettati.
Passando alla questione circa l’interruzione e la sospensione della prescrizione applicabile, le ricorrenti, chiedevano la disapplicazione dell’art. 25 del Regolamento 1/2003 e lamentavano l’assenza di un termine massimo assoluto, stabilito dal legislatore unionale, al di là del quale fosse esclusa ogni azione della Commissione, nonostante le eventuali sospensioni o interruzioni del termine di prescrizione iniziale. Secondo il Tribunale, tale sistema risulta da un contemperamento – lasciato al margine di discrezionalità del legislatore – fra i valori della certezza ed il rispetto del diritto, e pertanto non vi si intravedeva alcun profilo tale da incidere sulla legittimità della decisione.
Infine, con riguardo alla recidiva, il Tribunale constata che l’intenzione della Commissione di prendere in considerazione la distinta decisione sanzionatoria precedentemente adottata nei confronti di una ricorrente era sufficientemente prevedibile, e che il lasso di tempo intercorso tra le due infrazioni prese in considerazione a titolo di recidiva (tre anni e otto mesi) tra la decisione sanzionatoria precedente e la condotta oggetto della seconda era da considerarsi proporzionale.
Le pronunce richiamate sembrano quindi non porre alcun limite ad un ripetuto esercizio del potere sanzionatorio da parte della Commissione; fintantoché le parti hanno la volontà e la possibilità economica di correggere il suo operato tramite il diritto di difesa, infatti, alla Commissione è permesso sanzionare una impresa trascorse due decadi dal termine della condotta contestata, con buona pace del principio di certezza giuridica.
Francesca Incaprera Huerta
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Concentrazioni e settore del gaming – La Commissione europea e la Competition and Markets Authority britannica approfondiscono le rispettive istruttorie aperte nei confronti della proposta di acquisizione di Activision/Blizzard da parte di Microsoft
Con il comunicato stampa pubblicato lo scorso 8 novembre, la Commissione europea (la Commissione) ha annunciato l’avvio di un’istruttoria (c.d. fase II) (l’Istruttoria UE) in merito all’acquisizione di Activision-Blizzard, Inc. (ABK) da parte di Microsoft, al fine di valutare la compatibilità dell’operazione con mercato comune ai sensi del Regolamento UE n. 139/2004 sul controllo delle concentrazioni (il Regolamento). L’Istruttoria UE procede in parallelo rispetto all’indagine deliberata dalla Competition and Markets Authority britannica (la CMA) in merito alla medesima operazione (l’Istruttoria britannica).
ABK sviluppa e pubblica videogiochi per console, PC e dispositivi mobili, quali cellulari e tablet; costituisce al momento una delle maggiori case editrici di videogiochi a livello mondiale, anche grazie alla presenza nel proprio portafoglio di titoli di particolare successo quali Call of Duty e Candy Crush. Microsoft, dal canto suo, oltre ad offrire prodotti quali il sistema operativo Windows e il servizio di cloud computing Azure, sviluppa, pubblica e distribuisce videogiochi – anche particolarmente popolari, come Minecraft – e produce anche una propria console (Xbox) assieme ai relativi servizi.
Negli ultimi anni, il numero e la tipologia di canali di distribuzione di videogiochi è in significativo aumento, e a fianco a canali distributivi “classici” (come l’acquisto del singolo titolo presso punti vendita fisici o online) sono in via di sviluppo soluzioni alternative in rapida crescita quali (i) i multi-game subscription services (i MGSS) e (ii) i cloud game streaming services (i CGSS). I primi sono servizi di abbonamento mediante i quali gli utenti possono avere accesso ad un catalogo di videogiochi da poter scaricare sulla console o sul PC, o trasmettere in streaming su diversi dispositivi tramite soluzioni cloud. I CGSS sono tecnologie che permettono agli utenti di trasmettere via streaming su dispositivi compatibili i giochi che vengono eseguiti su strutture hardware situate presso i data centers dei fornitori di tali servizi.
Con riguardo all’Istruttoria UE, la Commissione ritiene in via preliminare che la concentrazione possa significativamente ridurre la concorrenza nei mercati (i) della distribuzione di videogiochi per console e PC, e (ii) dei sistemi operativi per PC.
Secondo la Commissione, infatti, (a) a seguito della concentrazione Microsoft potrebbe avere la possibilità e l’incentivo di impedire la (o peggiorare significativamente le condizioni di) distribuzione di videogiochi (in particolare, di quelli di maggior successo – c.d. “Tier AAA” – quali Call of Duty) su console e servizi quali i MGSS e i CGSS di operatori terzi come SONY (che produce PlayStation, la principale console rivale di Xbox), a tutto vantaggio della propria console e dei propri servizi di MGSS (Xbox Cloud Gaming) e CGSS (Xbox Game Pass). Inoltre, (b) la forte integrazione tra catalogo di videogiochi, sistema operativo Windows e tecnologie di cloud gaming, potrebbe indebolire il mercato dei sistemi operativi per PC, scoraggiando gli utenti dall’acquistare PC non serviti dal sistema operativo Windows.
Nell’Istruttoria britannica, la CMA ipotizza tre diverse theories of harm che si sovrappongono in parte con quelle prospettate nell’Istruttoria UE; esse riguardano, rispettivamente, i mercati (i) delle console videoludiche (compresi i relativi servizi, quali i “negozi virtuali”), (ii) dei MGSS e (iii) dei CGSS.
Con riguardo alle console e ai MGSS, infatti, anche la CMA ritiene che post-acquisizione Microsoft avrebbe l’incentivo e la possibilità di adottare strategie escludenti, volte ad escludere o limitare la distribuzione dei videogiochi su console e MGSS terzi. Tale strategia potrebbe fare leva – inter alia – (a) sulla significativa forza dell’entità risultante dalla concentrazione nel mercato a monte della pubblicazione di videogiochi, (b) sul fatto che il mercato delle console è sostanzialmente un duopolio dove operano esclusivamente Microsoft e SONY (avendo tutt’altro target la terza società leader nella produzione di console e di servizi connessi, Nintendo), e sul fatto che Xbox Game Pass è già ora il più forte operatore nel mercato dei MGSS, (c) sull’importanza e popolarità dei prodotti di ABK, nonché (d) sull’esistenza di forti effetti di rete, diretti e indiretti (che raggiungono il proprio acme al momento del “lancio” delle nuove versioni delle console Xbox e PlayStation).
Con riguardo ai CGSS, infine, la CMA ha evidenziato che Microsoft, la quale già attualmente gode di una maggiore forza rispetto ad altri fornitori di CGSS, facendo leva sul proprio ecosistema verticalmente integrato che include videogiochi, console, MGSS, sistemi di cloud computing e sistemi operativi, post-acquisizione potrebbe far leva su tale ecosistema di gaming, a danno di altri fornitori di CGSS. In particolare, Microsoft potrebbe adottare strategie escludenti con riguardo (i) ai singoli videogiochi (non rendendoli disponibili su piattaforme alternative, o rendendoli disponibili a condizioni deteriori), ai (ii) servizi cloud (negando, oppure peggiorando le condizioni di accesso alla piattaforma Azure a fornitori terzi di CGSS) e (iii) al sistema operativo Windows (negando, oppure peggiorando le condizioni di accesso al medesimo). In sostanza, conclude la CMA, Microsoft potrebbe diventare, de facto, un gatekeeper tra sviluppatori di videogiochi e utenti, in danno di sviluppatori e case editrici di videogiochi indipendenti.
L’acquisizione di ABK da parte di Microsoft rappresenta sicuramente una delle maggiori operazioni di concentrazione degli ultimi anni nel settore delle tecnologie digitali e l’esito delle istruttorie in corso è particolarmente atteso al fine di comprendere meglio l’approccio della Commissione e della CMA in merito. Più nello specifico, sarà interessante notare se la chiosa finale della CMA sul ruolo di Microsoft quale gatekeeper tra sviluppatori di videogiochi e utenti, che richiama espressamente la medesima formulazione adottata in sede europea nel Regolamento UE 2022/1925 (il Digital Markets Act), sarà il preludio di una sostanziale convergenza tra CMA e Commissione con riguardo all’analisi delle operazioni di concentrazioni che interessano i c.d. Giganti Tech.
Ignazio Pinzuti Ansolini
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Appalti, concessioni e regolazione / Canone concessorio non ricognitorio e uso sotterraneo della strada – Il Consiglio di Stato ha stabilito che il canone non ricognitorio previsto dal Codice della Strada non si applichi alle condutture che passano nel sottosuolo.
Con la sentenza del 4 novembre n. 9689, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il canone di cui all’art. 27, commi 7 e 8, del D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (il “Codice della Strada”) non si applichi alle occupazioni finalizzate all’interramento di condutture, in quanto tale attività costituisce una modalità di utilizzo della sede stradale che non preclude la generale fruizione del bene pubblico interessato.
La vicenda originava dall’adozione da parte del Comune di Settimo Milanese (il Comune) di un regolamento che disciplinava l’imposizione del canone c.d. “non ricognitorio” anche alle occupazioni avvenute nel sottosuolo e, sulla cui base, veniva intimato ad un operatore economico il pagamento di un canone di occupazione in ragione della posa di alcuni elettrodotti.
A valle dell’imposizione del Comune, l’operatore economico provvedeva ad impugnare il regolamento comunale davanti al TAR Lombardia e, congiuntamente, a proporre domanda di accertamento sulla non debenza dei canoni. In primo grado, il ricorso veniva in parte respinto per motivi processuali sulla domanda di accertamento e, in parte accolto con riferimento all’annullamento del regolamento in quanto veniva accertato che il presupposto impositivo previsto dal regolamento eccedesse quanto consentito dalle disposizioni del Codice della Strada.
Il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza di primo grado, osservando che la previsione del Codice della Strada relativa alla nozione di “occupazione” dovesse leggersi in combinato disposto con quanto previsto in merito ai principi che informano la disciplina stradale che, secondo il giudice amministrativo, è un corpo normativo funzionale ad assicurare la sicurezza delle persone nella circolazione stradale e, dunque, in ultima analisi, la loro libertà di circolazione. Si è pertanto ritenuto che la ratio ispiratrice del canone “non ricognitorio” attenesse proprio alla necessità di imporre un provvedimento di autorizzazione, e conseguente canone, in ragione della sottrazione della strada o di una parte di essa dall’uso pubblico e collettivo, a vantaggio esclusivo di una parte privata.
In ragione di quanto sopra, si è concluso che in ragione del fatto che le occupazioni consistenti nell’interramento di condutture (come elettrodotti, ma con ragionamento estendibile a tutti i sottoservizi) non precludono la generale fruizione di alcuna risorsa pubblica, tali attività non possono essere soggette al canone “non ricognitorio” previsto dal Codice della Strada.
In conclusione, dopo diversi anni di orientamenti ondivaghi, la sentenza in commento ha finalmente precisato che, in materia di sottoservizi, non sarà possibile per le autorità comunali imporre il canone previsto dal Codice della Strada che, al contrario, deve applicarsi alle sole occupazioni che comportano la sottrazione di un tratto di strada pubblica all’utilizzo collettivo.
Naturalmente, pare opportuno precisare, il canone “non ricognitorio” potrà ancora applicarsi ai cantieri e alle altre attività preliminari all’installazione delle condutture che effettivamente comportano un pregiudizio alla circolazione mentre, alle installazioni sotterranee, continueranno ad applicarsi gli eventuali canoni previsti dalle leggi speciali e, in particolare, il c.d. canone unico previsto all'art. 1, commi da 816 a 847, della legge n. 160/2019.
Enrico Mantovani
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