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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza – Europa / Abuso di posizione dominante e settore dei social network – L’Avvocato Generale Rantos sull’appello di Meta avverso il Bundeskartellamt che la aveva sanzionata per abuso di posizione dominante nel mercato dei social network
Lo scorso 20 settembre, l’Avvocato Generale (l’AG) Rantos ha rassegnato le proprie conclusioni in merito al rinvio pregiudiziale sollevato dall’Oberlandesgericht Düsseldorf (l’OLG) nel contesto dell’appello promosso da alcune società del gruppo Meta Platforms (Meta) nei confronti della decisione B6 – 22/16 adottata dal Bundeskartellamt (il BKartA) nel 2019.
Il BKartA aveva condannato Meta per abuso di posizione dominante per aver condizionato l’accesso al social network Facebook.com all’accettazione di alcuni termini contrattuali, tra cui quelli relativi a (i) la raccolta di dati user e device-related generati su altri servizi del gruppo Meta (i.e. WhatsApp, Instagram, Oculus e Masquerade), nonché su siti e applicazioni gestiti da terze parti i quali avessero incorporato alcuni strumenti messi a disposizione da Meta, i c.d. “Facebook Business Tools”; (ii) il collegamento di tali dati con quelli generati dall’account Facebook dell’utente; (iii) il loro utilizzo da parte di Meta (la Condotta). Secondo il BKartA, la Condotta – ritenuta contraria alla disciplina del Reg. 2016/679 (il GDPR) – era il frutto di un abuso della posizione dominante di Meta nel mercato dei social network per utenti privati.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) è stata quindi chiamata a pronunciarsi su diverse questioni pregiudiziali, concernenti: (i) la competenza di un’autorità antitrust a constatare e sanzionare una violazione delle disposizioni sul trattamento dei dati personali ai sensi del GDPR; (ii) la validità del consenso al trattamento dei dati personali accordato a un’impresa in posizione dominante; (iii) il divieto di trattamento dei dati personali sensibili e le condizioni applicabili al consenso al loro utilizzo; nonché, infine, (iv) la liceità del trattamento dei dati personali alla luce di alcune giustificazioni previste dal GDPR.
Con riguardo al primo quesito, l’AG ritiene che il GDPR non osti a che, nell’esercizio delle rispettive funzioni, anche autorità diverse da quelle garanti dei dati personali – ivi incluse le autorità antitrust – possano accertare eventuali violazioni della disciplina del GDPR, benché con efficacia meramente incidentale. Secondo l’AG, infatti, la compatibilità di un determinato trattamento dei dati con la disciplina stabilita dal GDPR può essere un indizio importante per determinare se il medesimo comportamento sia o meno il frutto di una concorrenza normale tra imprese.
Secondo l’AG resta fermo, comunque, che l’abusività della medesima condotta ai fini della disciplina antitrust non dipende direttamente dalla conformità o meno con il GDPR; è anzi ben possibile che un comportamento legittimo ai sensi del GDPR costituisca una violazione della disciplina antitrust, e viceversa. Infatti, prosegue l’AG, gli artt. 101 e 102 TFUE non troverebbero applicazione unicamente laddove la disciplina specifica non lasci alcun margine di discrezionalità alle imprese, sostanzialmente imponendo loro l’adozione di comportamenti anticoncorrenziali.
La possibilità per le autorità antitrust di valutare incidentalmente la legittimità di un determinato trattamento di dati ai sensi del GDPR non pregiudica comunque l’applicazione del medesimo regolamento da parte delle autorità garanti dei dati personali, e in ogni caso l’irrogazione di sanzioni per una medesima condotta ai sensi delle due discipline non dovrebbe rientrare nell’ambito di applicazione del principio del ne bis in idem.
Sempre con riguardo al primo gruppo di questioni sollevate dall’OLG, l’AG afferma che le autorità antitrust sono vincolate dal principio di leale collaborazione (di cui all’art. 4, paragrafo 3, TUE) nei confronti delle autorità garanti dei dati personali; e dunque, ove l’autorità garante dei dati personali competente ai sensi del GDPR si sia già pronunciata sulla legittimità di un determinato trattamento ai sensi del medesimo regolamento, le autorità antitrust dovranno conformarsi per quanto possibile alla pronuncia, non potendo discostarsene.
Dove, invece, non sia già stata adottata una decisione da parte della competente autorità garante dei dati personali su una determinata condotta, in virtù dell’obbligo di cooperazione incombente sulle autorità antitrust queste ultime dovrebbero attendere che la competente autorità garante dei dati personali concluda l’istruttoria, salvo che tale attesa pregiudichi il necessario rispetto da parte dell’autorità antitrust di un periodo di indagine ragionevole e dei diritti di difesa dei soggetti interessati.
Con riguardo al secondo gruppo di questioni l’AG afferma che in linea di principio la posizione dominante di un’impresa non toglie sic et simpliciter validità al consenso liberamente espresso dagli utenti. Tuttavia, la posizione dominante del titolare del trattamento svolge un ruolo di primo piano nella valutazione dell’effettiva libertà di tale consenso.
Tuttavia, l’AG ritiene che, in determinati casi (per es. in virtù della natura dei servizi coinvolti dal trattamento), si presumerà che il consenso non sia stato validamente prestato ove l’interessato non abbia potuto prestare distinti consensi per distinti trattamenti.
Infine, l’AG ritiene che:
(i) il divieto di trattamento di dati sensibili di cui all’art. 9, paragrafo 1, del GDPR debba estendersi anche a quelle condotte, quali la Condotta, che prevedano la raccolta di dati che – individualmente o in forma aggregata – consentano la profilazione dell’utente secondo le categorie di cui all’elencazione dei dati personali sensibili;
(ii) non possano ritenersi “manifestamente resi pubblici”, (ai sensi dell’art. 9, paragrafo 2, lett. e) del GDPR) quei dati inseriti dagli utenti su siti e applicazioni gestiti da terze parti che integrino strumenti quali i “Facebook Business Tools”, dal momento che tali utenti potrebbero non essere in grado di comprendere che l’interazione con detti strumenti permetterebbe potenzialmente all’intera “collettività” di ricavare tali informazioni, e non soltanto al gestore del sito internet o dell’applicazione in questione; e ciò, si badi, non solo laddove l’account dell’utente sul social network sia “chiuso”, ma anche laddove tale account sia “aperto”;
(iii) alcune delle finalità avanzate da Facebook per giustificare il trattamento dei dati personali dei propri utenti alla luce dell’art. 6, paragrafo 1, del GDPR siano astrattamente configurabili anche con riguardo alla Condotta, purché (a) il trattamento sia oggettivamente necessario per la prestazione dei servizi relativi all’account Facebook; (b) sia necessario per perseguire un legittimo interesse fatto valere dal titolare del trattamento o dal terzo o dai terzi ai quali i dati siano comunicati – purché ciò non incida in modo sproporzionato su diritti e libertà fondamentali dell’interessato; e (c) sia necessario per rispondere a una legittima richiesta di fornire determinati dati, per contrastare comportamenti dannosi e per promuovere la sicurezza o per scopi di ricerca a beneficio della società e per promuovere la protezione, l’integrità e la sicurezza.
Le presenti conclusioni risultano particolarmente interessanti in quanto si soffermano su uno degli aspetti principali dei modelli di business delle piattaforme digitali, vale a dire l’ingente quantità di dati raccolti e gestiti da queste al fine di finanziare la fornitura dei propri servizi. Non resta che vedere se le conclusioni dell’AG verranno condivise dalla CGUE, la cui pronuncia è attesa nei prossimi mesi.
Ignazio Pinzuti Ansolini
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Azioni follow-on ed effettività del risarcimento – Secondo AG Kokott l’attuale regime spagnolo di ripartizione delle spese processuali in caso di soccombenza parziale è incompatibile con il principio di effettività del risarcimento
Con le conclusioni pubblicate lo scorso 22 settembre, l’Avvocato Generale Kokott (AG) ha reso il proprio parere in merito alle questioni procedurali che il Tribunale del Commercio di Valencia ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) tramite un rinvio pregiudiziale promosso nel contesto di un’azione follow-on per il risarcimento del danno da illecito antitrust riconducile al filone della decisione “Trucks”, ossia la decisione della Commissione che ha accertato l’esistenza di una infrazione delle regole di concorrenza da parte dei principali produttori di autocarri.
Nello specifico, la prima questione sollevata verte sulla compatibilità delle disposizioni del Codice di procedura civile spagnolo in tema di ripartizione delle spese processuali in caso di soccombenza parziale con il principio euro-unitario di effettività del diritto al risarcimento. La seconda e la terza questione, invece, vertono sull’estensione del potere di quantificazione del danno tramite stima equitativa, come conferito al giudice nazionale dall’articolo 17 della Direttiva 2014/104, nella specifica ipotesi in cui (a) parte attrice abbia avuto accesso ai dati su cui la convenuta ha fondato le proprie relazioni peritali e in quella in cui (b) parte attrice abbia agito solo contro uno dei destinatari della decisione amministrativa (in quanto responsabili in solido), dal quale non abbia però acquistato la totalità dei prodotti che sono a fondamento della sua azione.
Con riferimento alla prima questione, va premesso che il Codice di procedura civile spagnolo prevede al riguardo in via generale che, in caso di soccombenza parziale, ciascuna parte debba sostenere le proprie spese processuali e metà di quelle comuni. Nel tentativo di stabilire se tale disposizione nazionale possa rendere eccessivamente difficile l’affermazione del diritto al risarcimento dei danni causati da un illecito antitrust, l’AG ha fatto ampio riferimento al precedente Caixabank, il quale ha ad oggetto la medesima questione seppur nel diverso ambito delle clausole abusive nei contratti con il consumatore. In particolare, Kokott ha evidenziato sia come il rischio di soccombenza parziale risulti particolarmente elevato nelle azioni follow-on (in ragione delle inerenti difficoltà nel provare un illecito antitrust generalmente riscontrate da parte attrice), sia come le perizie economiche di cui le parti si avvalgono in giudizio possano essere di fatto molto onerose.
Alla luce di queste osservazioni, l’AG ha ritenuto quindi che la disposizione nazionale in questione sia capace di ridurre in maniera significativa il risarcimento effettivamente ottenuto dall’attore, nonché di disincentivare a monte un soggetto danneggiato dal promuovere un’azione di risarcimento del danno. Tuttavia, va precisato che da ciò non deve conseguire necessariamente che parte attrice sia esonerata dal sostenere qualsiasi spesa. Infatti, alla luce della giurisprudenza della CGUE, secondo l’AG sarebbe ragionevole ritenere che l’attore debba sopportare, almeno in parte, quelle spese proprie e comuni il cui fatto generatore sia riconducibile alla sua sfera di responsabilità (tra le quali si possono annoverare, ad esempio, quelle che originano dalla presentazione di richieste sproporzionate oppure irragionevoli). Pertanto, l’AG ha suggerito di limitare l’incompatibilità in oggetto al solo caso in cui la soccombenza parziale derivi dall’eccessiva difficoltà o impossibilità di quantificazione del danno.
Con riferimento alla seconda questione pregiudiziale, l’AG ha rilevato che la Direttiva 2014/104 sembra subordinare il potere di stima del giudice al previo esperimento degli ordini di esibizione a favore dell’attore di cui all’articolo 5 della medesima Direttiva. Tuttavia, l’AG ha al riguardo suggerito che tale possibilità di stima non possa ritenersi preclusa in assoluto dall’accesso ai dati offerto dalla convenuta, in quanto non è possibile presumere che questo elimini il presupposto di tale potere, ovvero quell’asimmetria informativa che è causa dell’eccessiva difficoltà, se non impossibilità, di un’esatta quantificazione del danno. Spetterebbe quindi al giudice nazionale valutare caso per caso se, a seguito dell’accesso, persista la situazione di eccessiva difficoltà.
Infine, la terza questione pregiudiziale verte su un profilo di equità procedurale nei confronti della convenuta che si impernia sul fatto che questa dispone di informazioni limitate circa i prodotti degli altri partecipanti all’intesa. Tuttavia, l’AG ha suggerito che la circostanza per cui l’attore abbia agito in giudizio unicamente nei confronti di un partecipante all’illecito dal quale ha acquistato solo una parte dei beni rientranti nel relativo cartello non osta alla stima del danno subito resasi necessaria da un’eccessiva difficoltà, se non impossibilità pratica, di quantificarlo purché, su richiesta della convenuta, siano state esaurite anche tutte le possibilità di assunzione probatoria a suo favore astrattamente utili e ragionevolmente esigibili.
Con tali conclusioni, l’AG ha quindi contribuito a delineare ulteriormente sia l’ambito di applicazione del principio di effettività del risarcimento nelle azioni follow-on, sia il perimetro dell’esercizio di quantificazione del danno tramite stima demandato al giudice nazionale dalla Direttiva 2014/104. Resta ora da vedere se, ed eventualmente in che misura, la CGUE si discosterà dalle osservazioni di cui sopra nella propria sentenza.
Niccolò Antoniazzi
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Libertà di stabilimento e concessionari della gestione degli apparecchi di gioco – La CGUE ha valutato la compatibilità con la libertà di stabilimento del “prelievo” operato dalla legge di stabilità del 2015 sui concessionari di gioco.
Con la sentenza del 22 settembre, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha ritenuto non compatibile con l’art. 49 del TFUE la riduzione del compenso dei concessionari della gestione e raccolta del gioco (i Concessionari) prevista dal comma 649 dell’art.1 della legge 190/2014 (la Legge di Stabilità 2015), in quanto giustificata solamente da ragioni attinenti al miglioramento delle finanze pubbliche e comunque lesiva del legittimo affidamento dei Concessionari.
La decisione della CGUE è stata resa a valle delle plurime ordinanze di rinvio pregiudiziale adottate dal Consiglio di Stato (CdS) per ciascun concessionario (cause C-475-481/20).
In Italia, l’esercizio dei giochi di azzardo è una attività riservata allo Stato che, per mezzo dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli (ADM), ha affidato la gestione di tale attività a dei soggetti privati mediante concessione, in cui il compenso è determinato, in sostanza, in modo che il ricavo sia pari al prelievo complessivo delle giocate operate dal singolo concessionario, a cui devono sottrarsi: (a) le vincite da pagare ai giocatori; (b) gli importi dovuti agli operatori della filiera del gioco (e.g. i gestori delle sale scommesse); (c) il canone di concessione; e (d) le imposte, e in particolare, il “prelievo erariale unico” (PREU).
In tale contesto, al fine espresso di perseguire un miglioramento della finanza pubblica, con la legge di stabilità 2015 era stata prevista una riduzione del compenso annuo dei Concessionari per un valore pari a 500 milioni di euro, tramite un ulteriore prelievo determinato con riferimento ai redditi dell’anno precedente all’entrata in vigore della norma, per poi prevedere la stabilizzazione di tale prelievo sulla base delle rilevazioni del numero di apparecchi operata annualmente da ADM.
I Concessionari avevano dunque provveduto a contestare davanti al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (il TAR Lazio) i provvedimenti dell’ADM; nelle more di tali giudizi, il legislatore interveniva nuovamente con la legge n. 208/2015, abrogando la precedente disposizione e stabilendo che il prelievo operato dalla legge di stabilità del 2015 non fosse applicabile agli anni successivi, rendendolo dunque una tantum.
Sulla base della nuova disciplina, il TAR Lazio respingeva i ricorsi ma la relativa decisione veniva impugnata dai Concessionari davanti al CdS che, con plurime ordinanze, operava il rinvio alla CGUE lamentando un duplice profilo di incompatibilità con i Trattati: (a) la violazione della libertà di stabilimento garantita dall’articolo 49 TFUE e dell’esercizio della libera prestazione di servizi garantita dall’articolo 56 TFUE, con specifico riferimento all’effetto retroattivo della misura che incideva sui redditi realizzati nel 2014 e (b) la violazione della tutela del legittimo affidamento degli operatori privati, con riferimento anche al fatto che il prelievo fosse giustificato solamente da ragioni legate al contenimento della spesa pubblica.
Sul primo quesito, la CGUE ha escluso che il prelievo potesse comportare una violazione della libertà di prestazione dei servizi osservando che il prelievo disposto dal legislatore italiano non comportava alcuna discriminazione né nei confronti di altre imprese comunitarie, né tantomeno di altri settori del gioco (e.g. il gioco on-line), demandando comunque al CdS il compito di valutare tali profili e, in particolare, la sussistenza di una lesione della libertà di stabilimento.
Rilevante, tuttavia, appare il rilievo della CGUE secondo cui, ove la misura in questione dovesse costituire una violazione della libertà di stabilimento, la finalità perseguita dalla norma medesima, ossia il contenimento della finanza pubblica (elemento espressamente indicato dalla stessa normativa primaria), non costituirebbe un motivo legittimo per comprimere le libertà fondamentali garantite dai Trattati.
Sulla seconda questione, relativa al principio della tutela del legittimo affidamento, la CGUE ricorda che tale principio non può essere invocato ove l’operatore potesse ragionevolmente attendersi l’adozione di un provvedimento pregiudizievole per i propri interessi, venendo in rilievo solamente in caso di mutamenti improvvisi e imprevedibili del quadro regolatorio di riferimento; la CGUE ha quindi rilevato che spetti al giudice del rinvio valutare la sussistenza di elementi idonei a rendere prevedibile o meno il regime introdotto, puntualizzando che, dalla documentazione agli atti, non emergevano elementi tali da far ritenere prevedibile il prelievo operato.
In conclusione, spetterà al CdS valutare se, in base alle indicazioni ricevute dalla CGUE, la riduzione dei compensi dei Concessionari costituisca una violazione della libertà di stabilimento ovvero una lesione del legittimo affidamento degli stessi.
Enrico Mantovani
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Legal News / AGcom e secondary ticketing – Il Consiglio di Stato annulla la maxi-sanzione inflitta dall’AGcom alla società StubHub Inc.
Con la sentenza n. 5712/2021, il Consiglio di Stato (CdS) ha accolto il ricorso presentato da StubHub Inc. (la Ricorrente), società statunitense che opera nel settore del secondary ticketing, avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (il TAR Lazio) che confermava la sanzione inflitta dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGcom) per la violazione della normativa sul cosiddetto bagarinaggio online e ha offerto utili chiarificazioni sulla responsabilità degli hosting provider per le attività che sono svolte da soggetti terzi sulle loro piattaforme.
Nel 2021, l’AGcom aveva irrogato una sanzione alla Ricorrente per un totale di 1,750 milioni di euro per aver violato l’articolo 1, comma 545 della L. n. 232/2016 che vieta la vendita di biglietti ad un prezzo superiore al prezzo nominale per spettacoli e concerti da parte di soggetti non titolari di autorizzazione da parte dell’Agenzia delle entrate. L’istruttoria condotta dall’AGcom (v. Newsletter), così come confermata dal TAR Lazio, aveva riconosciuto la Ricorrente responsabile: (a) per aver posto in essere sulla propria piattaforma una “complessa attività di ottimizzazione e di promozione delle offerte” di vendita dei biglietti; (b) per l’interesse vantato e diretto alla finalizzazione della vendita illecita sulla propria piattaforma in virtù di una commissione incassata per ogni operazione; nonché (c) per aver fornito strumenti sulla piattaforma idonei a garantire il buon esito dell’operazione di vendita (e quindi agevolare l’operazione illecita).
In primo luogo, il CdS valuta positivamente la difesa della Ricorrente intesa ad escludere un proprio coinvolgimento nella vicenda. in primo luogo, la stessa (a) non risultava come il domain administrator della piattaforma italiana www.stubhub.it, (b) non era la titolare diretta del rapporto contrattuale con i venditori e acquirenti italiani per l’utilizzo della piattaforma, (c) non era società gestore del trattamento dei dati degli utenti che navigavano nel sito, e (d) non gestiva né stabiliva le regole di funzionamento della piattaforma. In sostanza, il CdS ha rilevato che la ricostruzione della vicenda, così come descritta nella delibera AGcom, è compendiata da supposizioni e ipotesi – come la mera sovrapposizione tra i due siti www.stubhub.it e www.stubhub.com – che non sono idonee a raggiungere quel grado di certezza per imputare ad un soggetto una determinata condotta illecita.
Infatti, la pertinenza di tali elementi è stata valutata soprattutto in base ai criteri ermeneutici interpretativi rinvenibili nella sentenza della Corte di Giustizia UE del 22 giugno 2021 nelle due cause riunite C-682/2018 e C-683/2018, che si pronuncia sull’interpretazione e applicazione di alcune norme della direttiva sul diritto d’autore (2001/29/CE) e della direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE). In particolare, secondo il CdS, tale sentenza è utile a ricostruire la responsabilità in capo ai c.d. “hosting provider passivi”, ossia coloro che pongono in essere un’attività di prestazione di servizi (nella fattispecie dell’hosting provider è quella di memorizzazione delle informazioni) di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che questi operatori – a differenza di quelli definiti “hosting provider attivi” – non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi.
Quindi, al fine di riconoscere una responsabilità in capo al gestore di una piattaforma, anche nel caso in cui questi rivesta la qualifica di hosting provider passivo, è necessario valutare il suo ruolo (imprescindibile) nella messa a disposizione di contenuti potenzialmente illeciti da parte dei suoi utenti, tanto che “senza la fornitura e la gestione di siffatta piattaforma la libera condivisione di tali contenuti sarebbe impossibile o quanto meno più complessa” e, soprattutto, bisogna valutare ‘il carattere intenzionale’ dell’intervento di tale gestore prendendo in considerazione tutti gli elementi pertinenti quali: (a) l’astenersi dal mettere in atto opportune misure tecniche che rimuovano il contenuto illecito; (b) il partecipare alla selezione dei contenuti illeciti; (c) fornire strumenti sulla propria piattaforma destinati a facilitare o agevolare la condivisione di contenuti illeciti; (d) promuovere scientemente la condivisone di contenuti illeciti adottando, ad esempio, modelli che inducano gli utenti a procedere illecitamente alla comunicazione al pubblico di contenuti protetti e/o illeciti. Secondo il CdS, dunque, bisogna escludere che la mera presenza e/o conoscenza di contenuti illeciti su una piattaforma dia automaticamente luogo a una responsabilità diretta del gestore della piattaforma, sia esso definito quale hosting provider attivo o passivo, non essendo neppure lo scopo di lucro un elemento che possa ricondurre o far emergere una responsabilità automatica per le condotte illecite realizzate attraverso la pubblicazione di contenuti sulle proprie piattaforme.
La sentenza in commento sembra quindi destinata ad essere oggetto di attenta analisi da parte sia di soggetti attivi nel settore del secondary ticketing, sia più in generale dei gestori di piattaforme on-line.
Maria Spanò
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