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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Concentrazioni e settore navale – La Commissione proibisce l’acquisizione di Daewoo Shipbuilding & Marine Engineering da parte di Hyundai Heavy Industries Holdings

Lo scorso 13 gennaio 2022 la Commissione europea (la Commissione) ha reso noto con comunicato stampa di aver vietato l'acquisizione (l’Operazione) di Daewoo Shipbuilding & Marine Engineering CO. Ltd da parte di Hyundai Heavy Industries Holdings, entrambe società parte di noti gruppi sudcoreani e, fra le altre cose, leader a livello mondiale nella costruzione di grandi navi metaniere.

La vicenda ha avuto inizio con la notifica dell’Operazione alla Commissione il 12 novembre 2019. Con il successivo avvio della c.d. fase II, questa aveva espresso inizialmente preoccupazioni, oltre che con riguardo alla costruzione di grandi navi metaniere, anche con riferimento alla costruzione di navi quali: i) grandi portacontainer; ii) petroliere; iii) per il trasporto di gas naturale liquefatto (GNL); e iv) per il trasporto di gas di petrolio liquefatto (GPL). Tuttavia, nel prosieguo dell’istruttoria la sua attività di indagine si è focalizzata solo sul mercato delle grandi navi metaniere.

Dall’analisi della Commissione è emerso che tale mercato si presenta già come altamente concentrato ed è caratterizzato da alte barriere all’ingresso legate, soprattutto, alla specificità del prodotto, al know-how e alla tecnologia necessari per potervi operare: la Commissione ha quindi accertato che le grandi metaniere sono navi altamente sofisticate e differenziate, estremamente complesse da costruire.

Tenuto conto di queste caratteristiche, la Commissione ha quindi rilevato che l’Operazione, così come notificata, avrebbe:

  •  comportato la creazione di una posizione dominante in tale mercato: l’entità risultante dall’acquisizione avrebbe, infatti, raggiunto una quota del 60%;
  •  limitato il potere di scelta per i clienti: oltre alle parti, infatti, esiste solo un altro concorrente, che secondo la Commissione è risultato privo della forza necessaria per rappresentare un effettivo vincolo concorrenziale;
  •  determinato l’aumento dei prezzi per i clienti all’interno della UE e, in ultima analisi, per i consumatori di energia.

In considerazione del fatto che la domanda di queste navi è in buona parte europea (pari a circa il 50% degli ordini) e, rappresentando questi prodotti un elemento essenziale nella catena di approvvigionamento energetico, anche a fronte della mancata presentazione di impegni da parte delle due società, la Commissione ha vietato l’Operazione.

Resta da vedere se questa decisione sarà oggetto di ricorso dinanzi alle corti di Lussemburgo; peraltro, le tempistiche di tale contenzioso si rivelano tradizionalmente inidonee a consentire alle parti di continuare a lavorare in direzione del perfezionamento della concentrazione.

Maria Spanò

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Diritto della Concorrenza Italia / Giurisdizione civile e contratti a valle – Sono parzialmente nulle le fideiussioni omnibus riproduttive di clausole frutto di un’intesa anticoncorrenziale a monte

Con la sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021, le Sezioni Unite definiscono il contrasto di giurisprudenza sui rimedi esperibili nei confronti dei contratti di fideiussione stipulati a valle di intese a monte ritenute illecite ai sensi del diritto antitrust, stabilendo che ciò non travolge l’intero contratto ma solo, ai sensi dell'art. 1419 c.c., le clausole riproduttive di quelle presenti nello schema unilaterale che costituisce l'intesa vietata, fatta salva la prova di una diversa volontà delle parti in merito all’essenzialità di tali clausole rispetto al complessivo assetto contrattuale.

La vicenda origina da un procedimento istruttorio aperto nel corso del 2003 dalla Banca d'Italia, nella sua veste al tempo di amministrazione competente per l’applicazione delle norme antitrust nei confronti degli istituti di credito, al fine di verificare la compatibilità dello schema contrattuale di fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie predisposto dall’ABI (Associazione bancaria italiana) con la disciplina in materia di intese restrittive della concorrenza. Con il provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 la Banca d'Italia chiudeva la propria istruttoria riconoscendo che “…gli articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l'articolo 2, comma 2, lettera a), della legge n. 287/90…”. Le altre disposizioni dello schema contrattuale, invece “non risultano lesive della concorrenza”.

A seguito di tali fatti, si è posta dinanzi ai giudici civili la questione degli effetti prodotti dall’illecito antitrust rilevato a monte da Banca d’Italia sulle fideiussioni stipulate a valle contenenti le predette clausole e dei rimedi esperibili dalla controparte contrattuale. Sul tema, la giurisprudenza di merito e gli orientamenti sezionali della giurisprudenza di legittimità hanno individuato tre possibili soluzioni: (i) una tutela meramente risarcitoria; (ii) la nullità totale del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c.; ovvero (iii) la nullità parziale delle sole clausole riproduttive delle clausole 2, 6 e 8 di cui sopra ex art. 1419 c.c.

Con la pronuncia in commento, il massimo organo di nomofilachia chiarisce che la forma di tutela più coerente con le finalità proprie della normativa antitrust e al contempo capace di assicurare il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda – i.e. l’interesse degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria – è la nullità parziale. Insufficiente, in questo senso, sarebbe invece la mera tutela risarcitoria: il riconoscimento alla vittima dell’illecito del diritto ad azionare la nullità del contratto si rivela un adeguamento delle tutele strumentale, prima ancora che all’interesse del singolo, alla tutela della trasparenza e correttezza del mercato, cui la normativa antitrust è posta a presidio. Esclusa dunque l’idoneità di una tutela meramente risarcitoria disgiunta da una tutela demolitoria, la preferenza delle Sezioni Unite per la nullità parziale si fonda sul favor manifestato dall’ordinamento per la conservazione del contratto. A norma dell’art. 1419 c.c., la nullità parziale non si estende all’intero contenuto della disciplina contrattuale, se permane l’utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti. L’estensione all’intero contratto degli effetti della nullità parziale ha dunque carattere eccezionale, e l’onere della prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla è a carico di chi ha interesse a far cadere l’intero assetto di interessi condensato nel contratto.

La pronuncia della Suprema Corte chiarisce inoltre il meccanismo di trasmissione della patologia dall’atto a monte – la cui natura anticoncorrenziale sia stata oggetto di accertamento da parte dell’Autorità amministrativa competente – agli atti a valle. Premette in questo senso la Cassazione che la normativa antitrust, sanzionando come intese sia comportamenti negoziali, sia non strettamente negoziali, ha inteso impedire un “risultato economico”, i.e. l’alterazione della concorrenza a favore di tutti gli operatori del mercato e a prescindere dalle forme che tale alterazione può concretamente assumere. Se ne deduce che anche la combinazione di più atti di natura diversa può integrare un illecito “…qualora tra gli atti stessi sussista un ‘collegamento funzionale’ tale da concretare un meccanismo di violazione della normativa nazionale ed eurounitaria antitrust…”. La funzionalità in parola si riscontra quando “…il contratto a valle (nella specie una fideiussione) è interamente o parzialmente riproduttivo dell'intesa a monte…”, ovvero “…quando riproduca – come nel caso concreto - solo una parte del contenuto dell'atto anticoncorrenziale che lo precede, in tal modo venendo a costituire lo strumento di attuazione dell’intesa anticoncorrenziale…”. In questi casi, è proprio tale nesso funzionale tra intesa a monte e contratti a valle a creare il meccanismo distorsivo della concorrenza. Per tale ragione, i contratti a valle di accordi contrari alla disciplina antitrust, in quanto costituenti “lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti”, partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell’atto a monte, e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi.

La pronuncia della Cassazione torna così su un tema (quello della nullità antitrust dei c.d. contratti a valle) già al centro del dibattito a cavallo tra diritto civile ed antitrust di oltre un decennio fa, intervenendo a sanare una questione ancora aperta nel panorama giurisprudenziale, e sancendo una massima che avrà impatto sistemico sui rapporti tra gli istituti di credito e i beneficiari delle fideiussioni. Resta da vedere se e in che misura l’approccio della Suprema Corte sul punto troverà applicazione a fattispecie diverse da quella sottoposta al vaglio della Corte nel caso in esame.

Alessandro Canosa

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Abuso di dipendenza economica e settore dell’abbigliamento – L’AGCM ha avviato un’istruttoria nei confronti di Original Marines S.p.A. per una serie di condotte nei confronti degli operatori nella vendita al dettaglio dei prodotti del marchio

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato un’istruttoria nei confronti di Original Marines S.p.A. (OM) in relazione ad una serie di condotte al fine di verificare se le medesime possono rappresentare un abuso di dipendenza economica nei confronti dei rivenditori del marchio di abbigliamento. La segnalazione è stata effettuata da diversi titolari di contratti di franchising con OM e che hanno fatto emergere la realtà di un “sistema Original Marines” caratterizzato, secondo le accuse formulate, da un insieme di condizioni contrattuali potenzialmente particolarmente gravose e di una specifica strategia che riverserebbe sugli affiliati tutti i rischi di impresa, condizionando la loro possibilità di operare in maniera efficace sul mercato, giungendo infine ad una “cannibalizzazione” dei negozi che avrebbe portato la società a rilevare numerosi punti vendita in tre anni.

In particolare, emergerebbero dai contratti una serie di clausole idonee a radicare una dipendenza economica dell’affiliato, con obblighi contrattuali che imporrebbero di conformare l’intera attività commerciale a quanto indicato da OM, il tutto a spese del franchisee. Secondo la ricostruzione operata dall’AGCM in sede di avvio dell’indagine in parola, il franchisee è infatti obbligato sia all’allestimento del punto vendita, sia alla sottoscrizione di una garanzia bancaria, oltre che alla stipula di una polizza assicurativa con una compagnia predeterminata e soprattutto all’installazione e all’aggiornamento, sempre a spese del retailer, di un sistema informatico attraverso il quale OM imporrebbe il proprio controllo sulla gestione degli ordini e sulle promozioni, nonché sui prezzi di rivendita. Infatti, attraverso detto sistema informatico, l’affiliato assume l’obbligo di inviare giornalmente aggiornamenti a OM che, da parte sua, ha la possibilità di imporre l’acquisto di una quantità minima di prodotti standard del proprio assortimento. Il tutto, insieme ad alcuni prodotti il cui acquisto sarebbe obbligatorio per ragioni di uniformità della rete. OM ha altresì la possibilità di imporre promozioni senza programmazione mentre gli affiliati sono limitati nella loro autonomia imprenditoriale in quanto viene loro concessa la possibilità di effettuare campagne promozionali solo a seguito di espressa e preventiva autorizzazione di OM.

Inoltre, il contratto di franchising stipulato con OM prevede il divieto di cessione del contratto senza previo consenso e il divieto di cedere a terzi il punto vendita senza averlo prima offerto in prelazione a OM. Quest’ultimo punto in particolare rileva in quanto, fino al 2017, OM avrebbe operato sul mercato anche attraverso una società consociata, Trader S.r.l., che operava in zone anche limitrofe a quelle dei punti vendita in franchising e per la quale si applicavano condizioni contrattuali più favorevoli, attraverso operazioni finanziarie volte a mantenere la solvibilità degli affiliati in maniera artificiale. Tutte queste condotte avrebbero progressivamente portato ad una sofferenza dei negozi del programma OM, risultata in diverse istanze di fallimento a carico delle imprese in esso coinvolte. A seguito di ciò, e in forza della prelazione prevista da contratto, la società avrebbe acquistato, negli anni, numerosi punti vendita: secondo la segnalazione, 70 nel solo 2017 e 213 tra il 2017 e il 2019.

Con questo procedimento si conferma la particolare attenzione che l’AGCM ha dimostrato recentemente nei confronti degli abusi di dipendenza economica (come peraltro già rilevato in questa stessa Newsletter). Ad avviso dell’AGCM, viste le dimensioni della rete commerciale della società e i significativi impatti che tali condotte hanno sugli imprenditori coinvolti, i comportamenti in esame incidono anche a discapito del mantenimento della concorrenza nel mercato di interesse (il che – giova ricordarlo – costituisce un presupposto per il ricorso dell’AGCM a tale disciplina, altrimenti riservata al solo contenzioso civile).

Alessia Delucchi

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Tutela del Consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore del noleggio di prodotti elettronici - L’AGCM ha sanzionato Samsung Electronics Italia e Personal Renting rispettivamente per 150 e 300 mila euro

Con il provvedimento dello scorso 21 dicembre 2021, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha concluso che i comportamenti posti in essere da Samsung Electronics Italia S.p.A. (Samsung) e da Personal Renting S.p.A. (Personal Renting), in relazione alla promozione ed esecuzione di un contratto di noleggio per prodotti informatici ed elettronici di alta gamma (smartphone e device analoghi), costituiscono due pratiche commerciali scorrette ai sensi del Codice del Consumo.

In particolare, l’AGCM ha rilevato che:

a) nel caso di Samsung, la condotta commerciale contestata consiste nella diffusione, attraverso il proprio sito aziendale, della pubblicità del contratto di noleggio nella quale si assicurava la possibilità di assistenza o sostituzione degli apparecchi. In particolare, Samsung avrebbe reso informazioni non corrette ed ingannevoli in ordine alle caratteristiche dell’operazione pubblicizzata;

b) per Personal Renting, la condotta commerciale contestata consiste nell’addebitamento, al termine del contratto di noleggio e senza contraddittorio, di penali significative derivanti da una eccessiva valutazione – svolta da partner commerciali interessati alla sottostima del valore dell’apparecchio – dei danni presenti sui prodotti restituiti dai consumatori.

Il procedimento è stato avviato, in data 25 maggio 2021, sulla base della segnalazione di un consumatore. Specificamente, l’AGCM ha rilevato che tale consumatore aveva sottoscritto con Personal Renting un contratto di noleggio di prodotti informatici, precedentemente acquistati dalla stessa Personal Renting sulla base di un contratto sottoscritto con Samsung, che si impegnava così a promuovere il servizio di noleggio sul proprio sito internet aziendale. Inoltre, Personal Renting si avvaleva di partner esterni per la gestione degli apparecchi dati in noleggio al cliente. Per l’attività di recupero del prodotto noleggiato e per la successiva valutazione dello stato dell’apparecchio restituito, la società ricorreva ai servizi di un broker, il quale inoltre riacquistava dalla stessa Personal Renting gli apparecchi al termine del noleggio. In particolare, il contratto di noleggio prevedeva un servizio di sostituzione del prodotto noleggiato in caso di furto e danno accidentale. Inoltre, con riguardo alle penali stabilite nel contratto stesso, alcuni clienti avevano contestato la poca correttezza da parte del broker in fase di valutazione degli apparecchi restituiti, evidenziando che i danni riscontrati sugli apparecchi erano spesso qualificati come più gravi rispetto a quelli effettivi, con la conseguente applicazione di penali infondate.

Con riferimento alla condotta di Samsung, l’AGCM ha rilevato che il messaggio pubblicitario da essa diffuso, tramite il proprio sito internet, rassicurasse il cliente in ordine all’esistenza di una polizza assicurativa in grado di coprire i danni e i furti dei prodotti noleggiati, alla mancanza di particolari regole di comportamento o di tenuta del dispositivo nonché alla garanzia di un sistema di assistenza e di sostituzione periodica del prodotto noleggiato. Inoltre, l’AGCM ha rilevato che tale messaggio pubblicitario ometteva ogni riferimento alla possibile applicazione di penali ai danni del consumatore in caso di danni o graffi all’apparecchio.

Con riferimento alla condotta della società Personal Renting, l’AGCM ha rilevato che la società ha applicato ai consumatori, per danni agli apparecchi o per mancate restituzioni e senza contraddittorio, penali di importo superiore al valore residuo dell’apparecchio. A tal proposito, l’AGCM ha rilevato che il broker, poiché riacquistava gli apparecchi stessi da Personal Renting, dopo aver valutato il loro valore residuo, aveva un diretto interesse a quantificare al ribasso il valore di tali apparecchi denunciando un livello di usura maggiore di quello effettivo e determinando così l’applicazione di penali, non dovute o eccessive, ai danni dei consumatori. Inoltre, Personal Renting, pur consapevole di tale situazione, è intervenuta sospendendo o cancellando tali penali solo dopo l’avvio del procedimento.

In conclusione, l’AGCM ha ritenuto che le condotte di Samsung e di Personal Renting, diffuse anche via internet, costituiscano una violazione delle norme del codice del consumo, dal momento che esse, anche in ragione di quest’ultimo mezzo di comunicazione, sono risultate idonee ad indurre i consumatori ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbero preso. Pertanto, l’AGCM ha sanzionato Samsung e Personal Renting rispettivamente per 150 e 300 mila euro. In entrambi i casi, la sanzione è stata ridotta “…tenendo conto delle misure proposte come impegni, adottate già nel corso del procedimento per la cessazione della condotta”.

Davide Mancini

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Giurisdizione amministrativa e principio del ne bis in idem - Il Consiglio di Stato rinvia alla Corte di Giustizia UE la questione del rapporto tra sanzioni per condotte illecite adottate da Stati membri diversi per le medesime condotte

In data 7 gennaio 2022, con l’ordinanza n. 68/2022, il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Corte di Giustizia) una questione pregiudiziale relativa, in sintesi, alla conformità al diritto UE della disciplina nazionale che consente di confermare in sede processuale (e rendere dunque definitiva) una sanzione per condotte illecite di pratiche commerciali scorrette nonostante, medio tempore, per le medesime condotte si sia formata una analoga condanna definitiva in un diverso Stato membro.

Quanto ai fatti di causa, il contenzioso da cui trae origine il rinvio pregiudiziale riguarda il provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha sanzionato le società Volkswagen Group Italia S.p.A. e Volkswagen AG (congiuntamente, Volkswagen o Impresa) per una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, comma 2, 21, comma 1, lettera b), e 23, comma 1, lettera d), del d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo). In sostanza, la vicenda attiene al c.d. “Dieselgate”, ossia la vicenda connessa a quanto riscontrato dall’EPA (agenzia federale americana sull’ambiente) in merito alla presunta installazione di un “software” su alcuni motori “diesel” (ma anche a benzina) in grado di diminuire artificialmente le emissioni inquinanti in sede solo di omologazione ma non in normali condizioni di marcia. In altre parole, tramite questo software, in sede di omologazione dell’auto venivano dichiarate delle emissioni di CO2 inferiori rispetto a quelle effettive. In ragione di tali circostanze, con il provvedimento n. 26137 adottato nell'adunanza del 4 agosto 2016 e notificato alle ricorrenti in data 8 agosto 2016, l’AGCM aveva sanzionato l’Impresa per aver diffuso ai consumatori informazioni non veritiere su dati obbligatori (Provvedimento).

L’Impresa aveva quindi impugnato il Provvedimento dinanzi al Tar Lazio sollevando una serie di motivi di illegittimità.

Sennonché, in pendenza del giudizio dinanzi al Tar Lazio, la Procura tedesca di Braunschwieg (Procura) irrogava nei confronti di Volkswagen una sanzione pari a 1 miliardo di euro che, seppur naturaliter diversa, aveva contenuto analogo a quella adottata dall’AGCM. La sanzione della Procura, infatti, si fondava sostanzialmente sui medesimi fatti e condotte oggetto del provvedimento sanzionatorio dell’AGCM. Nel richiamare tale fatto sopravvenuto, l’Impresa formulava motivi aggiunti nell’ambito della sua impugnativa. Secondo l’Impresa, la decisione della Procura costituiva una sanzione di natura penale analoga a quella del Provvedimento e diretta a sanzionare le medesime condotte oggetto dello stesso. Tuttavia, la sanzione della Procura, pur essendo stata emanata successivamente all’adozione del Provvedimento, era divenuta definitiva in un momento antecedente alla definitività di quest’ultimo. In altre parole, secondo l’Impresa, per i medesimi fatti, essa aveva già eseguito (rectius espiato) la propria pena, provvedendo al pagamento della somma ingiunta in Germania. Per l’effetto, il Provvedimento era divenuto illegittimo per circostanze sopravvenute, non potendo, secondo la tesi della ricorrente, l’ordinamento europeo sanzionare due volte un’impresa per le medesime condotte (in particolare, tale divieto deriverebbe dall’applicazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 54 della Convenzione di Schengen).

Il Tar aveva tuttavia rigettato le censure sollevate dall’Impresa e confermato la correttezza del Provvedimento con sentenza n. 6920/2019 (Sentenza). Con particolare riferimento alla questione relativa all’illegittimità sopravvenuta del Provvedimento per essere stata medio tempore adottata una sanzione di analoga natura e specie sui medesimi fatti in un diverso Stato membro, il Tar aveva ritenuto che non potesse applicarsi al caso di specie il principio del ne bis in idem perché le due sanzioni, quella della Procura e quella dell’AGCM, sarebbero state diverse per diversità dei soggetti coinvolti, difformità dell’oggetto, diversità degli interessi e dei diritti fatti valere rispettivamente in Germania ed in Italia. Tra le altre cose, secondo la prospettazione del Tar, per un verso, Volkswagen era stata sanzionata in Germania esclusivamente sulla base di una “responsabilità amministrativa” delle persone giuridiche che non troverebbe fondamento normativo nella disciplina dell’Unione Europea e, per altro verso, la sanzione dell’AGCM sarebbe fondata sull’applicazione della diversa disciplina nazionale in materia di pratiche commerciali scorrette. In buona sostanza, queste differenze sarebbero idonee ad escludere l’applicazione del principio del ne bis in idem invocato dall’Impresa.

Avverso la Sentenza, l’Impresa ha quindi proposto appello in Consiglio di Stato, contestandone l’erroneità inter alia in merito all’applicazione del principio del ne bis in idem e domandandone la rimessione in Corte di Giustizia. In accoglimento delle considerazioni espresse da Volkswagen sul profilo del ne bis in idem, il Consiglio di Stato ha così rimesso la questione alla Corte di Giustizia.

In primo luogo, il Consiglio di Stato ha riconosciuto che i fatti presi in considerazione dai due provvedimenti erano analoghi – se non identici.
In secondo luogo, ammessa la rilevanza della questione e l’opportunità del rinvio, al fine di risolvere le questioni giuridiche in commento, nel rimettere la questione alla Corte di Giustizia, il Consiglio di Stato ha avanzato i seguenti tre quesiti:

a) l’accertamento della natura delle due sanzioni irrogate e, in particolare, se entrambe possano essere inquadrate nell’alveo delle sanzioni amministrative di natura penale;

b) in caso di risposta positiva (e accertato dunque il potenziale cumulo sanzionatorio per i medesimi fatti), confermare se l’applicazione del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea impedisce di irrogare una sanzione amministrativa di natura penale per pratiche commerciali scorrette a carico di un’impresa (ossia il Provvedimento dell’AGCM) che, nel frattempo, sia già stata penalmente condannata in via definitiva in un diverso Stato membro per i medesimi fatti (ossia, la condanna della Procura) nonostante quest’ultima sia intervenuta all’esito di un procedimento avviato successivamente rispetto alla data in cui è stata irrogata la sanzione amministrativa pecuniaria;

c) in caso di risposta positiva anche al secondo quesito, verificare se il cumulo sanzionatorio possa essere giustificato in applicazione della deroga all’art. 50 della Carta previsto dal successivo art. 52 della medesima. Infatti, l’art. 52 prevede che possono essere apportate delle limitazioni ai diritti riconosciuti dalla Carta (ivi incluso il principio del ne bis in idem) quando tali limitazioni siano (i) necessarie e (ii) rispondano a finalità di interesse generale ovvero per proteggere diritti e libertà altrui. Alla luce di tali premesse, dunque, la Corte di Giustizia dovrà accertare se le norme del Codice del consumo siano espressione di un interesse generale tale da giustificare e ammettere l’applicazione di un “doppio binario sanzionatorio” cumulativo per le medesime condotte.

Appare opportuno evidenziare che, su questi stessi presupposti, il Consiglio di Stato, nella parte conclusiva della pronuncia, sembra aver suggerito all’Impresa di sollecitare l’AGCM ad avviare un procedimento di annullamento d’ufficio (ovvero di riesame) del Provvedimento al fine di addivenire all’annullamento in parte qua dello stesso nella sua parte sanzionatoria.

In attesa della pronuncia della Corte di Giustizia, la rilevanza della questione oggetto dell’ordinanza di rimessione appare evidente. In effetti, nelle ipotesi di sanzioni irrogate in diversi Stati membri per le medesime (o anche analoghe) condotte, gli operatori potranno considerare l’opportunità di sollevare l’applicabilità del principio del ne bis in idem al fine di annullare la sanzione che sia divenuta definitiva successivamente rispetto all’altra.

Tommaso Filippo Massari

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