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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza Italia / Intese e settore del cemento – Il Consiglio di Stato riduce del 50% la sanzione irrogata dall’AGCM a Holcim Italia S.p.A.

Con la sentenza n. 8191/2019, pubblicata il 29 novembre scorso, il Consiglio di Stato (CdS) ha accolto parzialmente il ricorso presentato da Holcim Italia S.p.A. (Holcim o la Società) avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (Tar Lazio) n. 8540/2019 che aveva confermato il provvedimento del 25 luglio 2017 dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) emesso a chiusura del procedimento I793 – Aumento dei prezzi del cemento (il Provvedimento). Il CdS ha dimezzato la sanzione irrogata nei confronti di Holcim.

Con il Provvedimento, l’AGCM aveva sanzionato Holcim, unitamente ad altre imprese attive nel settore del cemento e all’associazione di categoria AITEC, per un’intesa restrittiva della concorrenza, vietata dall’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), consistente “… nel coordinamento dei prezzi di vendita del cemento, assistito anche da un controllo sistematico dell’andamento delle quote di mercato relative, realizzato tramite uno scambio di informazioni sensibili ...”.

Nei motivi di appello, la Società aveva denunciato l’erroneità della sentenza di prime cure laddove aveva confermato la decisione dell’AGCM in relazione all’individuazione di una intesa collusiva a livello nazionale, nonostante sia noto che la vendita del cemento avviene in mercato locale, a carattere macro-regionale, come la stessa AGCM e la Commissione europea aveva sempre riconosciuto nelle rispettive prassi decisionali degli ultimi 30 anni. Holcim aveva altresì evidenziato il correlato errore di giudizio sull’imputabilità dell’intesa a Holcim e degli elementi di prova addotti dall’AGCM a tale riguardo, unicamente provenienti da aree ove Holcim non operava; infine, aveva contestato la sentenza appellata laddove aveva respinto i motivi di impugnazione avverso le modalità di accertamento e di quantificazione della sanzione.

Il CdS aveva già avallato il Provvedimento in relazione alla sussistenza dell’intesa in tutti gli altri appelli che erano giunti innanzi al supremo giudice amministrativo, rigettando le relative impugnazioni in toto. Solo nella sentenza n. 1551/2019 emessa nei confronti di Cementi Giovanni Rossi S.p.A. aveva disposto la riduzione della sanzione nella misura del 20% in ossequio al principio di proporzionalità, avendo rilevato il carattere modesto dell’operatività di tale società in virtù dell’essere attiva solo in un ambito geografico ristretto.

Nella sentenza in commento il CdS, non potendo discostarsi dalle altre sentenze con cui aveva confermato l’infrazione accertata nel Provvedimento, ha peraltro ritenuto fondato due motivi di impugnazione relativamente alla quantificazione della sanzione in quanto, da un lato, il rigetto degli impegni propositi da Holcim non era stata adeguatamente motivata; dall’altro l’AGCM avrebbe violato il principio di proporzionalità a cui deve attenersi la sanzione alla luce della minore intensità della partecipazione di Holcim insita nell’operare solo nell’area del Nord-Ovest rispetto ad una intesa che secondo l’AGCM aveva carattere nazionale.

Più nello specifico, secondo il CdS, l’AGCM non avrebbe tenuto alcun conto della realtà economica entro la quale opera Holcim, ossia del fatto che la Società occupa e opera in un’area territorialmente circoscritta, con una quota di mercato del 4.8% a livello nazionale. Come sottolineato dall’appellante, e fatto proprio dal CdS infatti, Holcim “… non avrebbe potuto vendere il proprio cemento oltre il raggio di 150/250 chilometri dai propri stabilimenti, aree di commercializzazione al di là delle quali non avrebbe potuto arrivare nel mercato dell’Italia settentrionale”. Sembrerebbe pertanto che il supremo giudice amministrativo, non potendo discostarsi dalle sue precedenti sentenze afferenti il Provvedimento, abbia comunque voluto tenere conto della contraddittorietà del Provvedimento sotto il profilo dell’accertamento dell’infrazione a carattere nazionale (nonostante le evidenze decisive fossero presenti solo in relazione a certe aree) ed il carattere obiettivamente locale della produzione e vendita di cemento che di per se rende soggetti in aree lontane non in grado di competere tra di loro. Con ciò svuotando di qualsiasi logica l’ipotesi di un “cartello” tra imprese non concorrenti.

Come accennato, è importante ribadire che, in aggiunta a quanto sopra riportato, il CdS ha ritenuto che la valutazione della condotta sia stata pregiudicata anche dall’immotivato rigetto della proposta di impegni proposti da Holcim ai sensi dell’articolo 14 ter l. 287/1990. L’AGCM, infatti, per contestazioni analoghe a quelle che erano oggetto di separati procedimenti da parte sia della Commissione europea (la Commissione), sia dall’autorità di concorrenza inglese (CMA), aveva rigetto la proposta di impegni presentata dalla Società che erano invece stati tenuti in considerazione dalle autorità procedenti. Inoltre, il CdS ha rilevato che l’AGCM non aveva specificatamente motivato le ragioni su cui ha fondato l’irrilevanza della proposta ai fini dell’adozione e della quantificazione della sanzione.

In relazione a ciò, il CdS ha rilevato che l’AGCM avrebbe dovuto motivare puntualmente il diniego, dal momento che l’incidenza della violazione del dovere di motivazione diviene tanto più stringente “… laddove, come nel caso in esame, il rafforzamento del principio di legalità in senso procedimentale vada a compensare situazioni in cui si verifica la dequotazione del principio di legalità sostanziale …”. Secondo il CdS, l’assenza di specifica motivazione del diniego, essendo riferita ad una fase sub-procedimentale, deve pertanto incidere non sulla validità dell’atto impugnato, quanto piuttosto sulla graduazione della sanzione.

Alla luce di quanto sopra, il CdS ha statuito che la sanzione pecuniaria deve essere ridotta del 50%.

Si tratta di una delle più significative riduzioni in termini percentuali riconosciute negli ultimi anni in materia di cartelli e va a confermare che il CdS, nell’ambito della sua piena giurisdizione in materia di sanzioni, non esita a intervenire nella commisurazione delle ammende irrogate dall’AGCM laddove ritenga che violino il principio di proporzionalità, ribadendo il principio che l’ampia discrezionalità amministrativa non può diventare arbitrio.

Mila Filomena Crispino
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Abusi escludenti e servizi di intermediazione taxi – L’Autorità ha contestato a Società Cooperativa Taxi Torino l’inottemperanza al proprio provvedimento cautelare

Lo scorso 12 novembre, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha deliberato di contestare alla Società Cooperativa Taxi Torino (TT) l’inottemperanza alla misura impostale volta a impedire l’esclusione dei tassisti che aderiscano a diversi sistema di intermediazione tra domanda e offerta del servizio taxi.

L’AGCM aveva già avviato un’istruttoria nei confronti di TT per accertare l’esistenza di un abuso di posizione dominante costituito dall’applicazione di una clausola, contenuta nello statuto sociale della cooperativa TT, che prevede l’esclusione dalla cooperativa stessa di qualsiasi tassista che, pur rimanendo socio della cooperativa, aderisca ad un diverso soggetto titolare o gestore di un sistema tecnologico di intermediazione tra domanda e offerta dei servizi di trasporto urbano, o comunque ne utilizzi le prestazioni (la Clausola). Nell’attesa della decisione di merito sulla violazione, l’AGCM aveva deliberato l’applicazione della misura cautelare consistente nell’ordine di sospendere l’applicazione di tale clausola.

Il provvedimento in commento prende le mosse dal fatto che, a seguito della delibera della misura cautelare in discorso, tre tassisti che erano stati esclusi da TT in forza della Clausola, hanno fatto richiesta di essere reintegrati come soci, ricevendo un diniego motivato dall’asserita l’impossibilità di applicare la misura cautelare, e, di conseguenza, disapplicare la Clausola, ex tunc da parte di TT. A seguito di segnalazione, l’AGCM ha al contrario ritenuto che non si fosse in una situazione che richiedeva l’applicazione retroattiva della misura cautelare bensì che la domanda di reintegrazione sia assolutamente assimilabile a una richiesta di nuova ammissione, rispetto alla quale non può valere l’opposizione della Clausola in quanto sospesa dal provvedimento cautelare. Di conseguenza, l’AGCM ha deliberato di contestare, in ragione di tale diniego, la violazione di cui all’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 287/90, ossia l’inottemperanza alla misura cautelare dell’AGCM.

L’AGCM potrà, accertata l’inottemperanza entro il 31 maggio 2020, comminare una sanzione pari al massimo al 3% del fatturato di TT.

Riccardo Fadiga
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e agenzie di viaggio online – Il Consiglio di Stato accoglie parzialmente il ricorso di Fly Go

Con la sentenza pubblicata il 2 dicembre scorso, il Consiglio di Stato (CdS) ha accolto parzialmente il ricorso di Fly Go Voyager S.r.l. (Fly Go o la Ricorrente) avverso la sentenza del TAR che confermava il provvedimento con il quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) accertava che la predetta società aveva posto in essere tre distinte pratiche commerciali scorrette, irrogando, per ciascuna di esse, delle sanzioni pari a € 230.000, € 175.000 e € 95.000.

Fly Go è una c.d. OTA (“Online Travel Agency”) con sede in Romania. In particolare, essa offre un “servizio di comparazione”, che consente agli utenti di scegliere un servizio turistico alle condizioni economiche più convenienti in quel momento sul mercato, nonché un “servizio di prenotazione” che consente di prenotare e acquistare tali servizi direttamente sui suoi siti internet. Con il provvedimento n.26713 del 2016, l’AGCM aveva contestato a Fly Go le seguenti condotte:
(i) l’utilizzo ingannevole di segni distintivi di noti professionisti nel settore del trasporto aereo (quali Ryanair e Wizzair) all’interno di annunci pubblicitari diffusi su Google;
(ii) il ricorso a modalità decettive di presentazione del prezzo dei servizi turistici offerti sui propri siti internet mediante lo scorporo di alcune commissioni della cui esistenza i consumatori erano informati solo in una fase avanzata del procedimento di prenotazione; e
(iii) la mancata predisposizione di un sistema di assistenza clienti facilmente accessibile, alternativo al numero telefonico a pagamento.
Fly Go aveva poi impugnato tale provvedimento avanti il TAR, il quale ha respinto il ricorso.

Dinanzi al CdS, Fly Go ha dedotto, innanzitutto, un vizio di legittimità del provvedimento sanzionatorio derivante dalla violazione dell’art. 3, commi 3 e 4, della Direttiva 2000/31. Tale articolo prevede che gli Stati membri (e, quindi, le autorità indipendenti degli stessi) possono adottare provvedimenti limitativi della circolazione dei servizi dell’informazione poste in essere da un soggetto stabilito in un altro Stato membro soltanto se:
(i) sono necessari per il perseguimento di alcuni obiettivi, tra cui la tutela dei consumatori;
(ii) lo Stato membro abbia preventivamente chiesto all’altro Stato membro di adottare tali provvedimenti e quest’ultimo non l’abbia fatto o abbia adottato dei provvedimenti inadeguati;
(iii) lo Stato membro richiedente abbia notificato alla Commissione europea e all’altro Stato membro la propria intenzione di adottare i provvedimenti in questione.
In particolare, la Ricorrente ha contestato che l’AGCM avesse soddisfatto il requisito (ii) essendosi limitata a chiedere se i provvedimenti necessari fossero stati adottati o se l’autorità rumena avesse intenzione di farlo. Il CdS, tuttavia, ha ritenuto tale rilievo infondato sottolineando, in particolare, che le comunicazioni dell’AGCM specificavano letteralmente di essere finalizzate alla procedura di collaborazione prevista dalla Direttiva 2000/31.

In secondo luogo, Fly Go ha sostenuto che il testo degli annunci e la grafica dei siti web collegati non potevano indurre in confusione un consumatore medio. Il CdS, tuttavia, ha osservato che tale censura non poteva essere accolta in assenza di rilievi da parte del ricorrente contenenti elementi della fattispecie concreta idonei a consentire la valutazione circa l’idoneità (o meno) della condotta a creare confusione nel pubblico dei consumatori. Il CdS ha aggiunto che, alla luce della descrizione della condotta della società e, in particolare, del fatto che digitando il nome delle compagnie aeree low cost sul motore di ricerca il consumatore si venisse a trovare sul sito della società ricorrente, non fosse irragionevole o arbitraria la contestazione dell’AGCM del mancato rispetto dell’obbligo di chiarezza, trasparenza e comprensibilità delle comunicazioni commerciali.

La Ricorrente ha dedotto, inoltre, l’assenza dei presupposti della seconda violazione contestata, ossia il ricorso a modalità decettive di presentazione del prezzo di alcuni servizi turistici offerti. In tale contesto, il CdS ha citato l’articolo 51, comma 2, del Codice del Consumo, il quale – conformemente alla normativa europea – prevede che, nei contratti a distanza conclusi con mezzi elettronici, il professionista debba comunicare il prezzo al consumatore “… direttamente prima che il consumatore inoltri l’ordine …”. Poiché, nel caso in esame, l’AGCM stessa aveva affermato che i consumatori erano informati dell’esistenza delle commissioni in una fase avanzata del procedimento di prenotazione telematico ma in ogni caso antecedente all’ordine il CdS ha accolto tale censura. In proposito, è interessante notare che il CdS ha ritenuto di potersi discostare dalla giurisprudenza consolidata che richiede di presentare fin dal primo contatto con il consumatore il prezzo finale del servizio offerto. Fly Go aveva inoltre specificato di applicare delle commissioni variabili sulla base di una serie di elementi, tra cui la combinazione di volo selezionata e il numero di bagagli, sicché, contrariamente a quanto argomentato dal TAR – secondo cui le spese di gestione rappresentano un corrispettivo immediatamente calcolabile – l’ammontare delle stesse può essere determinato solo all’esito della scelta della tratta e degli ulteriori servizi accessori (quale il numero di bagagli).

Infine, il CdS ha ritenuto fondato anche il motivo di appello con cui Fly Go ha contestato la terza sanzione comminata. In particolare, il CdS ha citato la più recente giurisprudenza europea (C-649/17 della CGUE del 10 luglio 2019) secondo cui “… la direttiva non osta a che il professionista fornisca mezzi di comunicazione diversi (come moduli di contatto elettronico o sistemi di messaggeria istantanea o di richiamata telefonica), purché tali mezzi consentano una comunicazione tra consumatore e professionista diretta ed efficace …”. Dal momento che Fly Go aveva predisposto, in aggiunta al numero telefonico a pagamento, anche un indirizzo mail per fornire assistenza agli utenti, il CdS ha escluso la configurabilità della terza violazione.

La sentenza in commento è di sicuro interesse perché presenta un’apertura ad argomentazioni avanzate dal professionista attivo nel mondo online che finora avevano stentato a trovare accoglimento, riconoscendo in particolare come ormai anche per il consumatore mediamente avveduto e, soprattutto, che ha acquistato un biglietto aereo online, sia ipotizzabile un’assistenza post-vendita efficace anche in assenza di un numero telefonico gratuito, come ad esempio con modalità online.

Luigi Eduardo Bisogno
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Legal News / Appalti pubblici e restrizioni sui sub-appalti – La Corte di Giustizia stabilisce che la disciplina europea sugli appalti osta a talune limitazioni imposte dalla normativa nazionale

Il 27 novembre scorso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la Corte) si è pronunciata in materia di subappalto nel contesto di una domanda di rinvio pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato. Questa riguardava la corretta interpretazione dell’art 118 commi 2 e 4 del D. lgs. 163/2006, ossia il codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (Codice Appalti) ed aveva quale specifico oggetto la normativa nazionale che limita al 30% la quota parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi, nonché a quella che limita al 20% il ribasso massimo praticabile dai sub-appaltanti rispetto ai prezzi dell’aggiudicazione.

La questione interpretativa sottoposta all’attenzione della Corte era stata sollevata dal Consiglio di Stato nell’ambito di una controversia riguardante l’impugnazione degli atti di una gara indetta dall’Università di Roma La Sapienza (La Sapienza) per l’affidamento di un appalto pubblico di servizi di pulizia.

All’esito della procedura, C.M. Service S.r.l. (C.M. Service), la quale si era classificata seconda, aveva presentato ricorso dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (TAR Lazio) impugnando il provvedimento di aggiudicazione, sul presupposto che l’offerta selezionata, proposta da Tedeschi S.r.l. e il Consorzio Stabile Instant Service (congiuntamente, l’RTI Tedeschi) avesse violato il limite del 30% fissato dall’art. 118 comma 2, del Codice Appalti per l’individuazione della quota parte del contratto sub-appaltabile a terzi; e che, allo stesso tempo, le prestazioni lavorative subappaltate erano retribuite con corrispettivi ribassati di oltre il 20%, violando dunque il limite imposto dal 4 comma dell’art. 118 del medesimo Codice.

Il TAR Lazio, accogliendo il ricorso, aveva constatato che le remunerazioni delle prestazioni lavorative affidate in subappalto erano inferiori di oltre il 20% rispetto a quelle praticate dalla soccombente nei riguardi dei propri dipendenti diretti. RTI Tedeschi ha appellato tale sentenza dinnanzi al Consiglio di Stato, mentre, di contro, C.M. Service ha proposto appello incidentale, sollevando le censure non accolte in primo grado nonché quella avente ad oggetto la violazione della disposizione di diritto italiano relative al divieto di subappaltare prestazioni corrispondenti a oltre il 30% dell’importo totale dell’appalto pubblico di cui trattasi. Il Consiglio di Stato ha ritenuto di sospendere il giudizio, dubitando della compatibilità della normativa italiana in materia di appalti pubblici con il diritto dell’Unione, e ha investito la Corte della questione chiedendo pertanto se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servici, di cui agli articoli 49 e 56 TFUE, gli articoli 25 della direttiva 2004/18 e 71 della direttiva 2014/24, che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale che, di contro, impone delle limitazioni quantitative.

La Corte ha quindi affermato il principio che riconosce l’incompatibilità della disciplina italiana di cui all’art. 118, commi 2 e 4, con il diritto europeo degli appalti pubblici in quanto, pur essendo riconosciuta alle amministrazioni aggiudicatrici la facoltà di limitare il ricorso ai subappaltatori dei quali non siano state in grado di verificare le capacità in sede di valutazione delle offerta, non risulta in linea con l’obiettivo di apertura del mercato perseguito dalle direttive europee del 2004 (e riproposto in quelle del 2014) una normativa, come quella italiana, che vieta in modo generale e astratto di sub-affidare a terzi una parte dell’appalto che superi una determinata percentuale (nel caso di specie il 30%) e che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto a quelli risultanti dall’aggiudicazione.

Secondo la Corte, anche a voler ritenere che la restrizione quantitativa del 30% prevista in materia di subappalto sia idonea a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici, rendendo meno appetibili le commesse per le organizzazioni criminali, essa non può comunque ritenersi proporzionata rispetto a tale obiettivo, non essendo consentito agli enti aggiudicatori di escluderne l’applicazione ove ritenuta non necessaria. Inoltre, la previsione della restrizione del 20% di cui all’art 118, comma 4, Codice Appalti, volta alla tutela dei lavoratori, secondo la Corte, eccede tale finalità esistendo nel diritto nazionale misure meno severe già dirette a garantire la tutela sociale nel mercato del lavoro e a consentire alle amministrazioni aggiudicatrici di verificare le capacità e l’affidabilità dei subappaltatori prima dell’esecuzione delle prestazioni.

Pertanto, ad avviso della Corte, le disposizioni nazionali contenute nel Codice Appalti ostano con i principi europei in materia. Sarà ora necessario attendere per vedere come il legislatore adeguerà la normativa italiana all’importante principio affermato a chiare lettere dalla Corte e come nelle more i giudici italiani applicheranno le indicazioni della Corte in considerazione della primauté del diritto dell’Unione.

Mariachiara di Francescantonio
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