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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza Italia / Abusi e trasporto marittimo di merci – Il TAR ha parzialmente accolto il ricorso di Moby contro una sanzione di oltre €29 milioni dell’AGCM
Con la sentenza pubblicata lo scorso 4 giugno, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR) si è espresso sul ricorso proposto da Moby S.p.A. e dalla sua controllata Compagnia Italiana di Navigazione S.p.A. (congiuntamente, Moby/CIN) avverso il provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva irrogato nei loro confronti una sanzione pari a oltre 29 milioni di euro per avere abusato della propria posizione dominante, in violazione dell’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Secondo l’AGCM, infatti, Moby/CIN, operatori nel settore del trasporto navale, avevano messo in atto un boicottaggio, diretto in alcuni casi e indiretto in altri, nei confronti di un concorrente, al fine di dissuadere i clienti dall’avvalersi dei servizi di quest’ultimo. Moby/CIN avrebbero, da un lato, adottato comportamenti punitivi e ritorsivi nei confronti dei clienti imprese di logistica che si erano avvalse dei servizi di un concorrente di Moby/CIN per il trasporto via mare anche solo per una parte dei propri carichi (ad esempio, mediante recessi ingiustificati o ingiustificato peggioramento delle condizioni commerciali) (il Boicottaggio diretto); e, dall’altro, concesso sconti applicati discrezionalmente e selettivamente a imprese di logistica che promettessero di approvvigionarsi esclusivamente attraverso Moby/CIN (il Boicottaggio indiretto).
Se da un lato il TAR ha avallato le conclusioni dell’AGCM sia con riferimento all’esistenza di una posizione dominante riferita a Moby/CIN, sia riguardo alla sussistenza di un ingiustificato pregiudizio economico causato ai clienti che si erano approvvigionati parzialmente presso diversi armatori (clienti che Moby/CIN, nelle comunicazioni interne, definivano evocativamente quali “traditori”) attraverso il Boicottaggio diretto, il TAR ha rilevato che, al contrario, con riferimento alle contestazioni di Boicottaggio indiretto, sussistesse una grave carenza istruttoria. Infatti, le pratiche messe in atto da Moby/CIN, e qualificate dall’AGCM come “sconti fedeltà”, di norma considerati abusivi anche dalla giurisprudenza comunitaria, erano state considerate da Moby/CIN come replicabili dai concorrenti e, quindi, lecite in quanto non sarebbero risultate inferiori ai costi medi del servizio. Sul punto, ha rilevato il TAR, l’AGCM non ha compiuto alcuna analisi, mancando di confutare tali deduzioni della parte limitandosi a sostenere unicamente l’intento lesivo nei confronti dei concorrenti, non ritenuto sufficiente dal TAR.
Di conseguenza, il TAR ha stabilito che la percentuale del fatturato rilevante scelta dall’AGCM per il calcolo della sanzione, pari nel caso di specie al 9%, non era più appropriata in considerazione dell’annullamento di parte dell’accertamento amministrativo dell’illecito antitrust per quanto attiene alle condotte ascrivibili al Boicottaggio indiretto. Di conseguenza, il TAR ha annullato il provvedimento in via parziaria rinviando gli atti all’AGCM affinché quantifichi nuovamente la sanzione adottando una adeguata e più contenuta percentuale di gravità.
La sentenza in commento appare dunque in qualche misura confermare l’approccio, espresso dalle corti comunitarie negli ultimi anni in materia di abusi ed in particolare di scontistica (si veda, in particolare, il celebre caso Intel), di maggiore rigorosità nei confronti dell’autorità antitrust per quanto attiene all’onere di dimostrare sul piano economico l’effettiva delle lesività delle condotte.
Riccardo Fadiga
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Secondo l’AGCM, infatti, Moby/CIN, operatori nel settore del trasporto navale, avevano messo in atto un boicottaggio, diretto in alcuni casi e indiretto in altri, nei confronti di un concorrente, al fine di dissuadere i clienti dall’avvalersi dei servizi di quest’ultimo. Moby/CIN avrebbero, da un lato, adottato comportamenti punitivi e ritorsivi nei confronti dei clienti imprese di logistica che si erano avvalse dei servizi di un concorrente di Moby/CIN per il trasporto via mare anche solo per una parte dei propri carichi (ad esempio, mediante recessi ingiustificati o ingiustificato peggioramento delle condizioni commerciali) (il Boicottaggio diretto); e, dall’altro, concesso sconti applicati discrezionalmente e selettivamente a imprese di logistica che promettessero di approvvigionarsi esclusivamente attraverso Moby/CIN (il Boicottaggio indiretto).
Se da un lato il TAR ha avallato le conclusioni dell’AGCM sia con riferimento all’esistenza di una posizione dominante riferita a Moby/CIN, sia riguardo alla sussistenza di un ingiustificato pregiudizio economico causato ai clienti che si erano approvvigionati parzialmente presso diversi armatori (clienti che Moby/CIN, nelle comunicazioni interne, definivano evocativamente quali “traditori”) attraverso il Boicottaggio diretto, il TAR ha rilevato che, al contrario, con riferimento alle contestazioni di Boicottaggio indiretto, sussistesse una grave carenza istruttoria. Infatti, le pratiche messe in atto da Moby/CIN, e qualificate dall’AGCM come “sconti fedeltà”, di norma considerati abusivi anche dalla giurisprudenza comunitaria, erano state considerate da Moby/CIN come replicabili dai concorrenti e, quindi, lecite in quanto non sarebbero risultate inferiori ai costi medi del servizio. Sul punto, ha rilevato il TAR, l’AGCM non ha compiuto alcuna analisi, mancando di confutare tali deduzioni della parte limitandosi a sostenere unicamente l’intento lesivo nei confronti dei concorrenti, non ritenuto sufficiente dal TAR.
Di conseguenza, il TAR ha stabilito che la percentuale del fatturato rilevante scelta dall’AGCM per il calcolo della sanzione, pari nel caso di specie al 9%, non era più appropriata in considerazione dell’annullamento di parte dell’accertamento amministrativo dell’illecito antitrust per quanto attiene alle condotte ascrivibili al Boicottaggio indiretto. Di conseguenza, il TAR ha annullato il provvedimento in via parziaria rinviando gli atti all’AGCM affinché quantifichi nuovamente la sanzione adottando una adeguata e più contenuta percentuale di gravità.
La sentenza in commento appare dunque in qualche misura confermare l’approccio, espresso dalle corti comunitarie negli ultimi anni in materia di abusi ed in particolare di scontistica (si veda, in particolare, il celebre caso Intel), di maggiore rigorosità nei confronti dell’autorità antitrust per quanto attiene all’onere di dimostrare sul piano economico l’effettiva delle lesività delle condotte.
Riccardo Fadiga
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Tutela del consumatore / AGCM e geo-blocking – La c.d. legge europea ha attribuito all’AGCM le competenze di vigilanza sull’applicazione del Regolamento europeo volto a impedire i blocchi geografici ingiustificati (c.d. geo-blocking) nell'ambito del mercato interno
La legge 3 maggio 2019, n. 37 per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea (c.d. “legge europea”), in relazione al Regolamento europeo volto ad impedire i blocchi geografici ingiustificati e altre forme di discriminazione basate sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti nell’ambito del mercato interno (Regolamento) ha attribuito all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) la responsabilità di vigilare sull’applicazione del Regolamento stesso.
Tale Regolamento prevede diversi obblighi di non discriminazione, in particolare con riferimento alla possibilità di accedere alle interfacce online, a beni e servizi, e alle medesime condizioni di pagamento senza che il professionista possa applicare diverse condizioni di accesso per motivi legati alla nazionalità, al luogo di residenza o al luogo di stabilimento del cliente.
Tale nuova competenza dell’AGCM, conferita attraverso l’integrazione delle disposizioni del Codice del Consumo, sarà esercitata attraverso gli stessi poteri attribuiti all’AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette.
Riccardo Fadiga
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Tale Regolamento prevede diversi obblighi di non discriminazione, in particolare con riferimento alla possibilità di accedere alle interfacce online, a beni e servizi, e alle medesime condizioni di pagamento senza che il professionista possa applicare diverse condizioni di accesso per motivi legati alla nazionalità, al luogo di residenza o al luogo di stabilimento del cliente.
Tale nuova competenza dell’AGCM, conferita attraverso l’integrazione delle disposizioni del Codice del Consumo, sarà esercitata attraverso gli stessi poteri attribuiti all’AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette.
Riccardo Fadiga
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Pratiche commerciali scorrette e settore del trasporto aereo – L’AGCM sanziona Blue Panorama Airlines per le penali applicate in presenza di una non corretta registrazione del nominativo del passeggero in sede di prenotazione
Con la decisione adottata l’8 maggio 2019 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM o Autorità) ha imposto una sanzione di 1 milione di euro nei confronti della compagnia aerea Blue Panorama Airlines S.p.A. (BP) per aver posto in essere una pratica commerciale aggressiva.
La pratica commerciale accertata dall’AGCM consisteva nella pretesa, in presenza di irregolarità nella registrazione del nominativo in sede di prenotazione del titolo di viaggio, e direttamente in aeroporto e nell’imminenza del volo - come unica alternativa al rifiuto all’imbarco e alla perdita del servizio acquistato e delle eventuali tratte collegate - dell’acquisto di un nuovo biglietto al prezzo di vendita applicato in quel momento. In particolare, l’irregolarità concerneva le ipotesi di mancata indicazione del secondo e/o terzo nome o cognome del passeggero ovvero l’alterazione o mancanza di alcune lettere. A partire dall’aprile 2017 il pagamento di una nuovo biglietto era stato sostituito dall’applicazione di una reprint fee pari a 50 euro per ciascun passeggero e ciascuna tratta.
L’AGCM ha ritenuto che la suddetta pratica non potesse essere giustificata – come argomentato da BP – dagli obblighi comunicativi imposti dalle vigenti norme sulla sicurezza imposte ai vettori aerei ma che essa costituisse una regola commerciale fissata autonomamente dal vettore.
Ciò posto, l’Autorità ha riscontrato che in molti casi la nuova carta d’imbarco recava le medesime irregolarità della prenotazione originaria, la policy era applicata inflessibilmente (in particolare con riguardo alle tariffe più economiche) e appariva del tutto sproporzionata rispetto agli adempimenti sopportati dal vettore (ristampa della carta d’imbarco) e ai prezzi ordinariamente praticati da BP quale vettore low-cost.
Inoltre, secondo l’AGCM BP non allertava adeguatamente la clientela sulle conseguenze derivanti da una non corretta registrazione del nominativo né al primo contatto, né successivamente in fase di acquisto del biglietto ed eventuale web check-in. Neppure era prevista la possibilità, in quest’ultima fase, di regolarizzare tempestivamente e senza oneri le eventuali irregolarità.
L’Autorità, pertanto, ha valutato aggressiva la condotta descritta, considerando che il deficit informativo, intenzionalmente creato da BP, avesse favorito l’applicazione di una policy tale condizionare fortemente i comportamenti dei consumatori e la loro libertà di scelta attraverso l’addebito di un rilevante onere economico al fine di non perdere il servizio già acquistato. Peraltro, in alcuni casi l’irregolarità neppure era addebitabile al consumatore, in quanto il sistema di acquisto online di BP o di altri soggetti intermediari non forniva lo spazio sufficiente per l’inserimento di tutti i caratteri del nominativo completo.
L’Autorità ha concluso che “…la condotta posta in essere da BP sia stata nel complesso aggressiva […] poiché idonea ad alterare gravemente il rapporto economico con il consumatore ledendo la sua libertà di comportamento e imponendogli oneri ingiustificati, eccessivi e non preventivati al momento della conclusione del contratto, connotando quindi la pratica in termini di inaccettabile rigidità a vantaggio esclusivo del Vettore…”.
Ciò posto, tenuto conto della significativa dimensione economica del professionista, della diffusività della pratica che ha interessato moltissimi consumatori, del potenziale pregiudizio economico arrecato a fronte degli importi significativi accertati, della manifesta intenzionalità della pratica (realizzata al fine di incremento dei ricavi aziendali), della inidoneità delle modifiche adottate da BP a superare i profili decettivi e aggressivi e a fronte della durata della condotta, posta in essere a partire dal 1° ottobre 2016 e tutt’ora in corso, l’AGCM ha irrogato a BP una sanzione pari a un milione di euro.
Resta ora da vedere se le valutazioni dell’AGCM saranno confermate dai giudici amministrativi, qualora la società decida di impugnare la decisione in commento.
Roberta Laghi
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La pratica commerciale accertata dall’AGCM consisteva nella pretesa, in presenza di irregolarità nella registrazione del nominativo in sede di prenotazione del titolo di viaggio, e direttamente in aeroporto e nell’imminenza del volo - come unica alternativa al rifiuto all’imbarco e alla perdita del servizio acquistato e delle eventuali tratte collegate - dell’acquisto di un nuovo biglietto al prezzo di vendita applicato in quel momento. In particolare, l’irregolarità concerneva le ipotesi di mancata indicazione del secondo e/o terzo nome o cognome del passeggero ovvero l’alterazione o mancanza di alcune lettere. A partire dall’aprile 2017 il pagamento di una nuovo biglietto era stato sostituito dall’applicazione di una reprint fee pari a 50 euro per ciascun passeggero e ciascuna tratta.
L’AGCM ha ritenuto che la suddetta pratica non potesse essere giustificata – come argomentato da BP – dagli obblighi comunicativi imposti dalle vigenti norme sulla sicurezza imposte ai vettori aerei ma che essa costituisse una regola commerciale fissata autonomamente dal vettore.
Ciò posto, l’Autorità ha riscontrato che in molti casi la nuova carta d’imbarco recava le medesime irregolarità della prenotazione originaria, la policy era applicata inflessibilmente (in particolare con riguardo alle tariffe più economiche) e appariva del tutto sproporzionata rispetto agli adempimenti sopportati dal vettore (ristampa della carta d’imbarco) e ai prezzi ordinariamente praticati da BP quale vettore low-cost.
Inoltre, secondo l’AGCM BP non allertava adeguatamente la clientela sulle conseguenze derivanti da una non corretta registrazione del nominativo né al primo contatto, né successivamente in fase di acquisto del biglietto ed eventuale web check-in. Neppure era prevista la possibilità, in quest’ultima fase, di regolarizzare tempestivamente e senza oneri le eventuali irregolarità.
L’Autorità, pertanto, ha valutato aggressiva la condotta descritta, considerando che il deficit informativo, intenzionalmente creato da BP, avesse favorito l’applicazione di una policy tale condizionare fortemente i comportamenti dei consumatori e la loro libertà di scelta attraverso l’addebito di un rilevante onere economico al fine di non perdere il servizio già acquistato. Peraltro, in alcuni casi l’irregolarità neppure era addebitabile al consumatore, in quanto il sistema di acquisto online di BP o di altri soggetti intermediari non forniva lo spazio sufficiente per l’inserimento di tutti i caratteri del nominativo completo.
L’Autorità ha concluso che “…la condotta posta in essere da BP sia stata nel complesso aggressiva […] poiché idonea ad alterare gravemente il rapporto economico con il consumatore ledendo la sua libertà di comportamento e imponendogli oneri ingiustificati, eccessivi e non preventivati al momento della conclusione del contratto, connotando quindi la pratica in termini di inaccettabile rigidità a vantaggio esclusivo del Vettore…”.
Ciò posto, tenuto conto della significativa dimensione economica del professionista, della diffusività della pratica che ha interessato moltissimi consumatori, del potenziale pregiudizio economico arrecato a fronte degli importi significativi accertati, della manifesta intenzionalità della pratica (realizzata al fine di incremento dei ricavi aziendali), della inidoneità delle modifiche adottate da BP a superare i profili decettivi e aggressivi e a fronte della durata della condotta, posta in essere a partire dal 1° ottobre 2016 e tutt’ora in corso, l’AGCM ha irrogato a BP una sanzione pari a un milione di euro.
Resta ora da vedere se le valutazioni dell’AGCM saranno confermate dai giudici amministrativi, qualora la società decida di impugnare la decisione in commento.
Roberta Laghi
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Legal news / Piattaforme online e contenuti illeciti – Secondo l’Avvocato Generale Szpunar, è possibile obbligare un host provider che gestisce una piattaforma di rete sociale ad eliminare a livello globale determinati contenuti pubblicati su quest’ultima
Attraverso le proprie conclusioni rese lo scorso 4 giugno nell’ambito del procedimento denominato C-18/18 – Eva Glawischnig-Piesczek c. Facebook Ireland Ltd, l’Avvocato Generale Szpunar (l’AG) ha ribadito il principio espresso dalla Corte Europea di Giustizia (la CdG), seppur con le dovute differenze, in occasione del caso C-324/09 – L’Oréal SA c. Ebay International. Secondo tale precedente, un host provider che gestisce una piattaforma di rete sociale (ad esempio, Facebook) può essere obbligato a ricercare e successivamente rimuovere dalla piattaforma gestita tutte le informazioni presenti testualmente identiche a quella previamente qualificata come illecita da un provvedimento di un giudice nazionale. In aggiunta, l’AG si è anche espresso circa la portata territoriale del suddetto provvedimento, riconoscendo – sulla base dell’analisi del diritto internazionale privato e pubblico non armonizzato dal diritto dell’Unione europea (data la totale assenza di normativa comunitaria sul tema) – che non esistono ragioni avverse al riconoscimento del principio secondo cui un provvedimento di un organo giurisdizionale di un determinato Stato Membro possa imporre all’host provider interessato la cancellazione di un determinato contenuto a livello globale (e non, come invece sostenuto da Facebook Ireland Ltd (Facebook), esclusivamente a livello nazionale).
Per meglio comprendere tali conclusioni, occorre introdurre sinteticamente gli elementi fattuali posti alla base del summenzionato procedimento C-18/18. L’oggetto del contendere, infatti, riguardava un contenuto online (un articolo pubblicato dalla rivista di informazione austriaca oe24.at) condiviso da un utente di Facebook e ‘condito’ con frasi ingiuriose nei confronti di Eva Glawsching-Piesczek (parlamentare austriaca e presidente del gruppo dei Verdi die Grünen). Quest’ultima, dopo aver constatato la totale mancanza di reazione da parte di Facebook alle sue richieste di rimozione del contenuto in oggetto, ha presentato ricorso dinanzi al Tribunale del Commercio di Vienna, il quale ha emanato un’ordinanza cautelare volta ad imporre la rimozione immediata non solo del summenzionato contenuto ma anche di tutti quelli affini (ndr. “dal contenuto equivalente”) a quest’ultimo. Tale ordinanza è stata oggetto di appello da parte di Facebook in primis dinnanzi al Tribunale Superiore del Land ed, in seguito, alla Corte Suprema austriaca, la quale ha, infine, richiesto una pronuncia pregiudiziale da parte della CdG circa la conformità al diritto europeo di un’ipotetica estensione geografica (a livello globale) ed oggettiva (alle dichiarazioni di natura equivalente) dell’obbligo espresso.
Prendendo in esame il disposto normativo della Direttiva n. 31 dell’8 giugno 2000 (Direttiva 31/2000), l’AG ha stabilito quanto segue. In relazione, in particolare, alla questione pregiudiziale concernente la possibilità di obbligare un host provider ad eliminare determinati contenuti presenti sulla propria piattaforma, l’AG ha espresso la necessità di operare un’importante distinzione tra (i) la portata personale e sostanziale dell’obbligo di sorveglianza posto in capo al summenzionato provider e (ii) gli obblighi di sorveglianza che possono essere imposi in casi specifici. Per quanto concerne il primo punto, l’AG ha precisato che – sulla base del dettato dell’articolo 15 della Direttiva 31/2000 – non è possibile, per gli Stati Membri, imporre in capo ad un host provider un “obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che memorizzano”. Infatti, ad avviso dell’AG, siffatto obbligo comporterebbe, come necessaria conseguenza, la perdita di neutralità tipica dell’attività esercitata dall’host provider stesso, il quale, quindi, cesserebbe di essere un attore meramente tecnico, automatico e passivo e – al contrario – comincerebbe ad assumere un ruolo di controllo attivo che mal si concilia con la sua stessa natura. Nonostante quanto detto, l’AG – in relazione al secondo dei summenzionati punti – ha notato come il dettato dell’articolo 14 della medesima direttiva (letto alla luce della sopra-citata sentenza della CdG, C-324/09 – L’Oréal) permetta, invece, l’imposizione di un obbligo di sorveglianza “in casi specifici”. In altre parole, la sorveglianza ‘attiva’ da parte di un host provider non è inconciliabile con il dettato normativo UE vigente, a patto che tale attività sia incentrata ad impedire la perpetrazione di violazioni della stessa natura rispetto ad una precedentemente individuata in sede giudiziaria (anche se perpetrata da utenti diversi).
Il fil rouge con cui l’AG ‘cuce’ insieme i vari passaggi del proprio ragionamento è la volontà di riconoscere un “giusto equilibrio fra i diritti fondamentali coinvolti” ossia, da un lato, il diritto alla libertà d’impresa in capo all’host provider, che sarebbe violato nel caso in cui venissero imposti obblighi in capo a quest’ultimo tanto generali da comprimere la predetta libertà; dall’altro, il diritto della parte lesa di vedere eleminato un contenuto offensivo su una piattaforma ‘pubblica’. Proprio quest’ultimo profilo risulta essere la parte di maggior interesse della pronuncia, data l’affermazione della esigenza, sempre più impellente, di riconoscere un ruolo attivo in capo ai provider ai fini di assicurare una sorta di protezione minima necessaria per evitare il propagarsi di situazioni di ‘violenza verbale’, ormai sempre più comuni sulle piattaforme ‘social’.
Luca Feltrin
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Per meglio comprendere tali conclusioni, occorre introdurre sinteticamente gli elementi fattuali posti alla base del summenzionato procedimento C-18/18. L’oggetto del contendere, infatti, riguardava un contenuto online (un articolo pubblicato dalla rivista di informazione austriaca oe24.at) condiviso da un utente di Facebook e ‘condito’ con frasi ingiuriose nei confronti di Eva Glawsching-Piesczek (parlamentare austriaca e presidente del gruppo dei Verdi die Grünen). Quest’ultima, dopo aver constatato la totale mancanza di reazione da parte di Facebook alle sue richieste di rimozione del contenuto in oggetto, ha presentato ricorso dinanzi al Tribunale del Commercio di Vienna, il quale ha emanato un’ordinanza cautelare volta ad imporre la rimozione immediata non solo del summenzionato contenuto ma anche di tutti quelli affini (ndr. “dal contenuto equivalente”) a quest’ultimo. Tale ordinanza è stata oggetto di appello da parte di Facebook in primis dinnanzi al Tribunale Superiore del Land ed, in seguito, alla Corte Suprema austriaca, la quale ha, infine, richiesto una pronuncia pregiudiziale da parte della CdG circa la conformità al diritto europeo di un’ipotetica estensione geografica (a livello globale) ed oggettiva (alle dichiarazioni di natura equivalente) dell’obbligo espresso.
Prendendo in esame il disposto normativo della Direttiva n. 31 dell’8 giugno 2000 (Direttiva 31/2000), l’AG ha stabilito quanto segue. In relazione, in particolare, alla questione pregiudiziale concernente la possibilità di obbligare un host provider ad eliminare determinati contenuti presenti sulla propria piattaforma, l’AG ha espresso la necessità di operare un’importante distinzione tra (i) la portata personale e sostanziale dell’obbligo di sorveglianza posto in capo al summenzionato provider e (ii) gli obblighi di sorveglianza che possono essere imposi in casi specifici. Per quanto concerne il primo punto, l’AG ha precisato che – sulla base del dettato dell’articolo 15 della Direttiva 31/2000 – non è possibile, per gli Stati Membri, imporre in capo ad un host provider un “obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che memorizzano”. Infatti, ad avviso dell’AG, siffatto obbligo comporterebbe, come necessaria conseguenza, la perdita di neutralità tipica dell’attività esercitata dall’host provider stesso, il quale, quindi, cesserebbe di essere un attore meramente tecnico, automatico e passivo e – al contrario – comincerebbe ad assumere un ruolo di controllo attivo che mal si concilia con la sua stessa natura. Nonostante quanto detto, l’AG – in relazione al secondo dei summenzionati punti – ha notato come il dettato dell’articolo 14 della medesima direttiva (letto alla luce della sopra-citata sentenza della CdG, C-324/09 – L’Oréal) permetta, invece, l’imposizione di un obbligo di sorveglianza “in casi specifici”. In altre parole, la sorveglianza ‘attiva’ da parte di un host provider non è inconciliabile con il dettato normativo UE vigente, a patto che tale attività sia incentrata ad impedire la perpetrazione di violazioni della stessa natura rispetto ad una precedentemente individuata in sede giudiziaria (anche se perpetrata da utenti diversi).
Il fil rouge con cui l’AG ‘cuce’ insieme i vari passaggi del proprio ragionamento è la volontà di riconoscere un “giusto equilibrio fra i diritti fondamentali coinvolti” ossia, da un lato, il diritto alla libertà d’impresa in capo all’host provider, che sarebbe violato nel caso in cui venissero imposti obblighi in capo a quest’ultimo tanto generali da comprimere la predetta libertà; dall’altro, il diritto della parte lesa di vedere eleminato un contenuto offensivo su una piattaforma ‘pubblica’. Proprio quest’ultimo profilo risulta essere la parte di maggior interesse della pronuncia, data l’affermazione della esigenza, sempre più impellente, di riconoscere un ruolo attivo in capo ai provider ai fini di assicurare una sorta di protezione minima necessaria per evitare il propagarsi di situazioni di ‘violenza verbale’, ormai sempre più comuni sulle piattaforme ‘social’.
Luca Feltrin
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Servizi di comunicazioni elettronica e Corte di Giustizia – il servizio ‘SkypeOut’ costituisce un servizio di comunicazione elettronica
Lo scorso 5 giugno, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CDG) si è pronunciata in merito alla domanda pregiudiziale presentata nella causa C-142/18, nell’ambito di una controversia tra la Skype Communications Sàrl (la Società) e l’Institut belge des services postaux et des télécommunications (IBPT) (Istituto belga dei servizi postali e delle telecomunicazioni), con riferimento alla decisione di quest’ultimo di irrogare alla citata Società una sanzione amministrativa, per aver fornito un servizio di comunicazione elettronica senza aver previamente proceduto alla necessaria notifica all’autorità di regolamentazione belga competente.
Specificatamente, il procedimento principale ha ad oggetto il cd. servizio SkypeOut, una funzionalità aggiuntiva di Skype che consente all’utente di effettuare chiamate telefoniche da un terminale verso una linea telefonica fissa o mobile, utilizzando l’Internet Protocol (IP) e più precisamente la tecnica detta “Voice over IP” (VoIP). SkypeOut invece non consente di ricevere chiamate telefoniche provenienti da utenti di numeri di telefono belgi. Il servizio in questione è a disposizione degli utenti secondo due formule tariffarie, una prepagata e l’altra tramite abbonamenti che danno diritto ad un volume determinato di chiamate telefoniche mensili ad un costo fisso.
In tale contesto, a fronte delle mancate notifiche da parte di Skype per tale servizio, la domanda pregiudiziale è incentrata sul comprendere la definizione di servizio di comunicazione elettronica (sancita nella direttiva quadro 2002/21/CE). In particolare, se debba essere intesa nel senso che un servizio di telefonia vocale su protocollo Internet (VoiP), offerto tramite un software con terminazione su una rete telefonica pubblica commutata verso un numero fisso o mobile (di un piano nazionale di numerazione), debba essere qualificato come servizio di comunicazione elettronica, nonostante il fatto che il servizio di accesso ad Internet, tramite il quale l’utente accede a detto servizio di telefonia vocale su protocollo Internet, costituisca già di per sé un servizio di comunicazione elettronica, quando il fornitore del software offra tale servizio dietro retribuzione e concludendo accordi con i fornitori di servizi di telecomunicazioni per consentire la terminazione delle chiamate.
Ad avviso della CDG, il servizio in questione sarebbe idoneo a configurare un servizio di comunicazione elettronica. Al riguardo, i giudici evidenziano come la funzionalità di SkypeOut consista prevalentemente nel trasmettere i segnali vocali dall’utente chiamante verso l’utente chiamato sulle reti di comunicazione elettronica (Internet prima e poi la cd. Public Switched Telephone Network, PSTN) e al contempo come la Società debba essere considerata responsabile, nei confronti degli utenti della funzionalità SkypeOut che sono abbonati a detto servizio o hanno pagato per l’utilizzo di detto servizio, della trasmissione dei segnali vocali sulla PSTN. In particolare, nella sentenza emerge come il servizio VoIP implica due servizi di comunicazione elettronica distinti, che consistono: il primo, nel trasmettere i segnali vocali dall’utente chiamante fino alla passerella di interconnessione (gateway) tra Internet e la PSTN, che rientra nella responsabilità del service provider di Internet dell’utente chiamato; e il secondo, nel trasmettere detti segnali sulla PSTN fino alla terminazione fissa o mobile, che rientra nella responsabilità congiunta dei fornitori di servizi di telecomunicazioni delle persone chiamate e della Società, in forza dei contratti che li vincolano.
Alla luce di ciò, la Corte ha ravvisato come sebbene tali fornitori siano contrattualmente responsabili nei confronti della Società dell’instradamento dei segnali vocali emessi mediante SkypeOut sulla PSTN, è la stessa Società che invece è responsabile del servizio VoIP che essa fornisce, a pagamento, ai suoi clienti e abbonati. Alla luce di tali elementi e tenuto in considerazione anche il sistema di remunerazione previsto del sistema in questione, la CDG conclude riconoscendo SkypeOut come servizio di comunicazione elettronico regolato pertanto dalla citata Direttiva quadro.
Gloria Panaccione
Specificatamente, il procedimento principale ha ad oggetto il cd. servizio SkypeOut, una funzionalità aggiuntiva di Skype che consente all’utente di effettuare chiamate telefoniche da un terminale verso una linea telefonica fissa o mobile, utilizzando l’Internet Protocol (IP) e più precisamente la tecnica detta “Voice over IP” (VoIP). SkypeOut invece non consente di ricevere chiamate telefoniche provenienti da utenti di numeri di telefono belgi. Il servizio in questione è a disposizione degli utenti secondo due formule tariffarie, una prepagata e l’altra tramite abbonamenti che danno diritto ad un volume determinato di chiamate telefoniche mensili ad un costo fisso.
In tale contesto, a fronte delle mancate notifiche da parte di Skype per tale servizio, la domanda pregiudiziale è incentrata sul comprendere la definizione di servizio di comunicazione elettronica (sancita nella direttiva quadro 2002/21/CE). In particolare, se debba essere intesa nel senso che un servizio di telefonia vocale su protocollo Internet (VoiP), offerto tramite un software con terminazione su una rete telefonica pubblica commutata verso un numero fisso o mobile (di un piano nazionale di numerazione), debba essere qualificato come servizio di comunicazione elettronica, nonostante il fatto che il servizio di accesso ad Internet, tramite il quale l’utente accede a detto servizio di telefonia vocale su protocollo Internet, costituisca già di per sé un servizio di comunicazione elettronica, quando il fornitore del software offra tale servizio dietro retribuzione e concludendo accordi con i fornitori di servizi di telecomunicazioni per consentire la terminazione delle chiamate.
Ad avviso della CDG, il servizio in questione sarebbe idoneo a configurare un servizio di comunicazione elettronica. Al riguardo, i giudici evidenziano come la funzionalità di SkypeOut consista prevalentemente nel trasmettere i segnali vocali dall’utente chiamante verso l’utente chiamato sulle reti di comunicazione elettronica (Internet prima e poi la cd. Public Switched Telephone Network, PSTN) e al contempo come la Società debba essere considerata responsabile, nei confronti degli utenti della funzionalità SkypeOut che sono abbonati a detto servizio o hanno pagato per l’utilizzo di detto servizio, della trasmissione dei segnali vocali sulla PSTN. In particolare, nella sentenza emerge come il servizio VoIP implica due servizi di comunicazione elettronica distinti, che consistono: il primo, nel trasmettere i segnali vocali dall’utente chiamante fino alla passerella di interconnessione (gateway) tra Internet e la PSTN, che rientra nella responsabilità del service provider di Internet dell’utente chiamato; e il secondo, nel trasmettere detti segnali sulla PSTN fino alla terminazione fissa o mobile, che rientra nella responsabilità congiunta dei fornitori di servizi di telecomunicazioni delle persone chiamate e della Società, in forza dei contratti che li vincolano.
Alla luce di ciò, la Corte ha ravvisato come sebbene tali fornitori siano contrattualmente responsabili nei confronti della Società dell’instradamento dei segnali vocali emessi mediante SkypeOut sulla PSTN, è la stessa Società che invece è responsabile del servizio VoIP che essa fornisce, a pagamento, ai suoi clienti e abbonati. Alla luce di tali elementi e tenuto in considerazione anche il sistema di remunerazione previsto del sistema in questione, la CDG conclude riconoscendo SkypeOut come servizio di comunicazione elettronico regolato pertanto dalla citata Direttiva quadro.
Gloria Panaccione